L’articolo tratta dei licenziamenti disciplinari per giusta causa, nozione che viene ricostruita dall’Autore analizzando le diverse letture che di tale canone hanno dato la contrattazione collettiva e la giurisprudenza secondo le maglie più o meno larghe loro attribuite dall’evoluzione normativa della disciplina sui licenziamenti individuali.
L’Autore si concentra, in particolare, sull’assetto dei ruoli che la contrattazione collettiva e la giurisprudenza hanno assunto nelle più recenti riforme, quali la Riforma Fornero e il Job Act.
Justified dismissal between law, collective bargaining and Judge check The article debates about disciplinary justified dismissals, concept reconstructed by the Author analysing the different interpretations given about this rule by collective bargaining and jurisprudence. These interpretations show link more or less wides depending on the legal development about the dismissal.
The Author’s focus is, expecially, about the connections between collective bargaining and jurisprudence after the latest reforms, as the Fornero Reform and the Job Act.
1. Introduzione al tema
Esistono gravi inadempimenti degli obblighi contrattuali, al sopraggiungere dei quali viene meno l’interesse del datore di lavoro alla prosecuzione del rapporto stesso [1].
In tale prospettiva la risoluzione acquisisce rilevanza disciplinare [2] e determina il potere in capo al datore di lavoro di irrogare al dipendente responsabile di avere tenuto una siffatta condotta il provvedimento sanzionatorio del licenziamento con effetto immediato.
Per pacifico principio di legge (art. 5 della legge n. 604 del 1966), nonché per dominante orientamento della stessa Suprema Corte di Cassazione [3], è sul datore di lavoro che incombe l’onere di allegare e provare ai sensi dell’art. 2697 c.c. le circostanze giustificatrici dell’atto di recesso, quale fatto costitutivo del legittimo esercizio dell’atto di licenziamento e del relativo potere estintivo.
Pertanto, è sufficiente che il lavoratore impugni il licenziamento contestando la sussistenza della ragione fondatrice del recesso perché la condotta del datore di lavoro sia assoggettata al vaglio del giudice. Su questo punto, tuttavia, si ritornerà in seguito, svolgendo talune ulteriori considerazioni alla luce della recente riforma di cui al d.lgs. n. 23 del 2015 e della previsione contenuta all’art. 3, comma 2.
Invero, il compito interpretativo che si richiede all’organo giudicante, in questi casi, è tutt’altro che semplice e la motivazione d tale assunto è da ricondurre alla formulazione codicistica aperta della nozione di giusta causa in termini di “causa tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (art. 2119 c.c.) [4].
Si tratta, infatti, di una norma generale, i cui contenuti vanno via via definiti in relazione al caso concreto. Il ché attribuisce spazi di discrezionalità rilevanti (ed inevitabili) all’opera interpretativa richiesta al giudice, chiamato a decidere sulla legittimità del provvedimento di licenziamento.
Come ricorda la stessa Cassazione [5], infatti, “questa Corte di legittimità (ha) da tempo superato l’orientamento secondo cui il giudizio sull’esistenza o meno della giusta causa di recesso costituiva giudizio di fatto, denunciabile per cassazione solo se affetto da vizi di motivazione”, essendosi invece consolidato il principio di diritto secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali. Essa, come tale, delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione [continua..]