La parte di ricerca “sul campo”, soprattutto con riferimento ai primi accordi sul lavoro agile, è stata molto facilitata dalla proficua collaborazione col progetto “Smart Lab Milano Concilia 4.0”, promosso dall’Assessorato al lavoro del Comune di Milano. Si ringraziano in modo particolare Cristina Tajani, Fiorella Imprenti e Giuseppina Corvino. Grazie altresì a Laura Blasio, Mauro Santoianni e Fausto Monti (Camera di Commercio di Milano Monza Brianza e Lodi), Lucilla Pirovano (Rsu Fp Cgil Regione Lombardia) e Francesco Samorè (Fondazione Giannino Bassetti) per i fruttuosi scambi di idee e per i suggerimenti ricevuti. Resta inteso che ogni responsabilità per eventuali errori o inesattezze è esclusivamente di chi scrive.
L’articolo analizza i temi – connessi ma distinti – del telelavoro e del lavoro agile all’interno della struttura di quel particolare datore di lavoro che è la pubblica amministrazione. I due istituti sono analizzati da un punto di vista giuridico, ricostruendo i diversi passaggi che hanno portato all’attuale assetto normativo e approfondendo altresì il tema, non pacifico, della distinzione tra le due tipologie contrattuali, tenendo ben presente però che l’evoluzione del telelavoro e del lavoro agile va collocata all’interno di un più ampio discorso che riguarda l’organizzazione della p.a., in special modo con riferimento ai temi dell’innovazione e della misurazione della performance.
The article analyses two topics (which are related but also distinct): “teleworking” and “smart working”, within the structure of Public Administration as employer. These two institutes are analysed from a legal point of view, evaluating the steps that brought to the current regulating framework and, also, deepening the (non pacific) distinction between these two contractual types. However, it’s important to keep in mind that the evolution of “telelworking” and “smart working” must be placed in the wider issue of the organization of the Public Administration, especially referred to the themes of innovation and performance measurement.
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Nell’approfondire una materia ampia quale il telelavoro e il lavoro agile nella Pubblica amministrazione, appare imprescindibile qualche premessa di carattere generale, al fine di inquadrare queste tipologie di lavoro all’interno della specificità rappresentata dal datore di lavoro pubblico. Almeno per quel che concerne il telelavoro la valutazione che se ne potrà dare non sarà di carattere prognostico – come per certi aspetti è naturale, invece, in tema di lavoro agile, trattandosi di una fattispecie nuova – ma al contrario, dal momento che tale “strumento” (lo definiamo così, assumendo la prospettiva della gestione del personale) è utilizzabile da ormai oltre un ventennio, il giudizio potrà basarsi non solo sull’esperienza legislativa, ma anche su quella contrattuale e di prassi di questi anni. Per ciò che attiene al lavoro agile si analizzeranno le prime disposizioni contrattuali nonché alcune forme per certi aspetti pionieristiche di sperimentazione che, in alcuni casi, hanno anticipato la previsione legislativa contenuta nel d.lgs. n. 81/2017. Inizialmente però appare utile partire da una constatazione di carattere pre-giuridico. Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni è, a torto o a ragione, anche nelle “narrazioni” comuni, quanto di più assimilabile a quello che in inglese statunitense si è soliti definire un “nine-to-five-job”: è chiaro che tale definizione reca con sé un non detto che va al di là della letteralità approssimativa della traduzione, che evoca una idea di routine a livello di orario e di stabilità del rapporto di lavoro. Allargando lo sguardo, più in generale è la stessa organizzazione – del lavoro, ma non solo – delle p.a. a essere stata percepita di frequente quale fattore frenante più che quale perno imprescindibile capace di innovazione per il Paese. Come coniugare dal punto di vista del diritto del lavoro, tali pre-giudizi (o luoghi comuni, almeno in una certa misura) con l’impetuosa innovazione tecnologica rappresentata dalla cd. quarta rivoluzione industriale, la quale sta riscrivendo i paradigmi della contemporaneità, prima ancora che del lavoro, sarà l’interrogativo al quale si proverà a dare risposta nel presente contributo. Ma appare [continua ..]
Occuparsi di telelavoro nella pubblica amministrazione non significa approfondire una tematica che, per quanto importante, rappresenta tuttavia una nicchia rispetto al resto del lavoro subordinato: lo è probabilmente soltanto se si assume il punto di vista numerico dei dipendenti coinvolti, come si anticipava poc’anzi. Ma in realtà tale analisi ha una rilevanza di sistema che trascende il dato quantitativo perché, come è stato sottolineato, è proprio nel settore pubblico che il telelavoro «ha trovato compiuta emersione legislativa» [7], a differenza dell’ambito privato nel quale le norme di legge sono estremamente limitate (di mero raccordo con altre discipline) e dove pertanto la regolamentazione dell’istituto è stata posta in essere dall’autonomia collettiva, in primo luogo per il tramite dell’Accordo interconfederale del 9 giugno 2004 firmato da Cgil, Cisl e Uil e da tutte le principali organizzazioni datoriali [8]. L’importanza del telelavoro è testimoniata altresì dalla amplia letteratura giuslavoristica sull’argomento, rappresentata da alcuni contributi di profonda rilevanza teorica, la gran parte dei quali pubblicata nel corso degli anni Novanta e nei primi anni del nuovo secolo, proprio a seguito della prima regolamentazione legislativa in materia avutasi con la l. 16 giugno 1998, n. 191 (cd. legge Bassanini-ter) la quale a sua volta recepiva l’input proveniente dall’autonomia collettiva del settore pubblico con il Protocollo d’intesa del 12 marzo 1997 che ne auspicava la sperimentazione. È il caso di mettere preliminarmente in rilievo una circostanza: secondo parte della dottrina «non occorre[va] una specifica previsione legislativa autorizzatoria ai fini dell’introduzione di siffatta modalità organizzativa» [9]; pertanto le disposizioni in materia dovrebbero intendersi quali meramente promozionali: la norma non “inventa” il telelavoro né prima lo stesso era vietato «ma semmai non qualificato» [10]. Detta in altri termini, il telelavoro non trae la propria legittimità dalla norma succitata. Mutatis mutandis, questa ipotesi per cui l’autonomia collettiva – in maniera più avanzata – disciplina un istituto che non ha trovato ancora esplicita accoglienza nella legislazione, richiama alla mente quanto [continua ..]
Non si è citato a caso l’esempio del part time poc’anzi, bensì sono state le stesse parti sociali, al punto B.2 in tema di «formazione e reclutamento» del succitato Protocollo, ad auspicare la promozione delle (in realtà neanche allora molto) “nuove” modalità di gestione del mercato del lavoro (sic!), in particolare la disciplina del part time, del contratto di formazione lavoro e la sperimentazione di forme di telelavoro. A questa generica apertura delle parti sociali, che talvolta invero rimane lettera morta in documenti di tale natura, il legislatore rispose prontamente dettando con l’art. 4 della l. 16 giugno 1998, n. 191 disposizioni in tema di telelavoro nella p.a. Non è neutra riportare la circostanza del provvedimento legislativo che contiene detta disposizione: si tratta del cd. decreto Bassanini-ter, che si innesta dunque e va a modificare i primi due decreti che, se è possibile semplificare, ha costituito uno dei più importanti tentativi di porre in essere una robusta riorganizzazione e riforma dell’amministrazione italiana. Chiaramente non si può dare un giudizio complessivo in poche righe di uno dei provvedimenti legislativi più complessi degli ultimi decenni, ma basti qui riportare come, correttamente, il telelavoro andava a innestarsi quale piccolo tassello in un disegno molto più ampio ed ambizioso – sebbene non necessariamente organico – di riforma organizzativa dell’amministrazione italiana. Infatti, secondo quello che sarebbe diventato un refrain molto utilizzato dal legislatore e cioè (art. 1) «allo scopo di razionalizzare l’organizzazione del lavoro e di realizzare economie di gestione attraverso l’impiego flessibile delle risorse umane», le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di «forme di lavoro a distanza» e a tal fine, nell’ambito di proprie disponibilità di bilancio possono installare «apparecchiature informatiche e collegamenti telefonici e telematici necessari» autorizzando i propri dipendenti ad effettuare, a parità di salario, la prestazione lavorativa «in luogo diverso dalla sede di lavoro, previa determinazione delle modalità per la verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa». Come è stato opportunamente segnalato, in premessa di qualsiasi discorso [continua ..]
Di tutta evidenza non sarebbe di grande utilità porre in essere una rilettura minuziosa dei succitati provvedimenti, a un ventennio dalla loro emanazione e dopo la pubblicazione di notevoli (e spesso ancora attuali) contributi in tal senso: nella logica complessiva del presente articolo verranno ricordati soltanto alcuni aspetti del telelavoro, nei confronti dei quali è possibile rintracciare un ulteriore e rinnovato profilo di interesse anche in un’ottica di confronto con la fattispecie del lavoro agile ex l. n. 81/2017, ed in particolare i) il luogo dell’esecuzione della prestazione; ii) i progetti di telelavoro; iii) la postazione. (i) Nella definizione di telelavoro contenuta all’art. 2, lett. a) del Regolamento, uno degli elementi qualificanti la fattispecie è quello della delocalizzazione dell’attività lavorativa (che si affianca al requisito dell’utilizzo, prevalente, della tecnologia informatica e della connessione, anche in potenza, con la p.a. di appartenenza): dunque «qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro». Ben è stato evidenziato, tra i primi studiosi che si sono occupati dell’istituto, che detto luogo «può indifferentemente essere di pertinenza del lavoratore, dell’amministrazione di appartenenza o di un’altra amministrazione; può in teoria non essere di pertinenza di nessuno, se pensiamo all’ipotesi del telelavoro “mobile”, che può svolgersi all’aperto» [15]. Pertanto, vero è – per continuare a dare uno sguardo al dato sociale – che la pressoché totalità dei telelavoristi dipendenti delle p.a. svolge la propria attività dal proprio domicilio; ma, dal punto di vista teorico, detta forma – senz’altro più tradizionale – non è che una delle possibili forme di esplicazione del telelavoro. Con un elenco esemplificativo l’art. 5 dell’Accordo quadro cita infatti «il lavoro mobile, decentrato in centri – satellite, servizi in rete o altre forme flessibili anche miste, ivi comprese quelle in alternanza, comunque in luogo idoneo, dove sia tecnicamente possibile la prestazione “a distanza”, diverso dalla sede dell’ufficio al quale il dipendente è assegnato». In questa invero non precisa elencazione, l’autonomia [continua ..]
Quest’ultimo riferimento ben può essere interpretato come la prima positivizzazione nell’ordinamento di quello che, successivamente, sarebbe stato definito dal legislatore del d.lgs. n. 81/2017 come lavoro agile. L’istituto ha già lungamente impegnato la dottrina [21] non solo a seguito dell’introduzione legislativa ma anche per tutto il corso della scorsa legislatura, a partire dai progetti di legge nonché dalle sperimentazioni provenienti, in prima battuta, da alcune grandi aziende [22]. C’è da dire che in maniera pionieristica – e cioè anche prima della disposizione di legge del 2017 ma facendo proprio la strada della sperimentazione di cui all’art. 14 della l. n. 124/2015 – si sono mosse alcune amministrazioni pubbliche: a titolo meramente esemplificativo si possono citare la Provincia di Trento, i Comuni di Torino e Genova, la Camera di Commercio di Milano, la Regione Lombardia. Ma nel percorso che ha portato all’approvazione legislativa va riconosciuto indubbiamente un ruolo di capofila all’Amministrazione comunale di Milano: non solo quale “datore di lavoro” bensì quale promotore della giornata (ora nel frattempo divenuta settimana) del lavoro agile che coinvolge sia imprese private che enti pubblici, ed ha avuto un innegabile ruolo di sprone, anche culturale, su temi che fino a qualche anno fa parevano “di nicchia”. Segnaliamo questi esempi concreti per una ragione che si considera semplice quanto fondamentale: è evidente – l’esempio del telelavoro ce lo dimostra – che le norme da sole non bastano e occorre per certi aspetti un cambiamento senz’altro organizzativo, ma prima ancora culturale, affinché l’istituto sia preso in considerazione. Il legislatore del 2015 all’art. 14 pone in essere una disposizione che, anche in questo caso, come accennato nelle pagine precedenti, ben si può definire “promozionale”, e colloca lo strumento del telelavoro nonché la sperimentazione di «nuove modalità spazio-temporali» di esecuzione della prestazione – come da lettera della rubrica dell’articolo in questione – nell’alveo della «Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche». Il focus, almeno di primo acchito, è pertanto il [continua ..]
Preliminarmente occorre chiarire una circostanza: la direttiva n. 3 del Dipartimento della funzione pubblica del 1º giugno 2017 non va confusa con la (coeva, anzi, addirittura precedente di giorno) direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri datata 23 maggio 2017: la prima concretizza gli indirizzi per l’attuazione dell’art. 14 della già citata l. n. 124/2015 e reca Linee guida «contenenti regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti»: pertanto ha quale destinatarie le Pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 165/2001; il secondo atto riguarda la sperimentazione del lavoro agile all’interno della medesima amministrazione, e detta disposizioni di dettaglio applicabili ai soli rapporti di lavoro alle dipendenze della Presidenza del consiglio dei ministri. Ciò premesso, l’analisi del testo della direttiva ci consente di ultimare il discorso relativo al lavoro agile all’interno delle p.a. e soprattutto ci offre l’occasione di confrontarci con alcuni dei quesiti, già abbozzati nelle pagine precedenti, riguardanti il rapporto tra la “nuova” modalità agile di esecuzione della prestazione lavorativa e la già consolidata, ormai, fattispecie del telelavoro, partendo proprio dall’angolo visuale rappresentato dai rapporti di lavoro alle dipendenze delle p.a. Il testo della direttiva è stato oggetto di critiche, per la sua prolissità e (conseguente) difficoltà di lettura con le quali, in larga parte, si ritiene di concordare. Essa appare caratterizzata da un paradosso di fondo: da un lato sembra dire “troppo”, soprattutto laddove si avventura – probabilmente in maniera giustificabile – in un quadro di sistema, di carattere anche socio-economico, di uno strumento che potenzialmente è dirompente dal punto di vista organizzativo: così si spiega una certa semplificazione (e al tempo stesso sia consentito dire quasi compiacimento) nell’utilizzo spinto di anglismi di matrice aziendalista: [25]; inoltre, per restare sempre su questo terreno “non giuridico” è ben presente diffusamente nel testo una certa «retorica sulla nuova cultura organizzativa, sulla responsabilizzazione dei dipendenti e l’orientamento al [continua ..]
Andando ad analizzare più da vicino gli aspetti relativi al rapporto di lavoro, occorre concentrare l’attenzione al punto 3 del testo della direttiva. In più parti, come si anticipava, la stessa si preoccupa di precisare che gli atti interni di ciascun ente, attraverso i quali si devono identificare le attività compatibili con il lavoro agile, nonché gli altri elementi indispensabili, contengano altresì elementi di differenziazione tra il telelavoro e il lavoro agile. Laddove il primo «meglio identificabile come prestazione lavorativa a distanza (ad esempio presso l’abitazione della lavoratrice o del lavoratore)» sembrerebbe pertanto essere caratterizzato dalla fissità della postazione lavorativa. Su questo punto è il caso di soffermarsi. L’art. 18 del d.lgs. n. 81/2017, dopo aver esplicato come per lavoro agile debba intendersi, come ormai ampiamente noto, una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa», specifica ulteriormente (i) che la prestazione lavorativa viene eseguita «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa», aggiungendo che (ii) detta prestazione venga resa entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva». Sebbene la nozione di telelavoro sia consolidata, a maggior ragione nella p.a. come sopra si è scritto diffusamente, da più parti in dottrina si è sostenuto che il discrimine volto a differenziare il lavoro agile rispetto al telelavoro sia costituito (i) dall’assenza di postazione fissa e (ii) dallo svolgimento di una parte dell’attività nella sede di lavoro, a fronte di una necessità, nel telelavoro «che la prestazione sia svolta continuativamente a distanza (dunque seppure non esclusivamente, con un grado di prevalenza abbastanza marcato» [28]. Altri commentatori hanno evidenziato come nella nozione di telelavoro non si possa desumere, a contrario, la presenza dei requisiti della fissità della postazione e [continua ..]
Per ritornare in conclusione alla direttiva della Funzione pubblica, occorre tener conto di come la stessa prenda posizione allorquando suggerisce la prevalenza delle modalità di prestazione sul luogo di lavoro, aggiungendo dunque un requisito ulteriore e non previsto dal legislatore. È il caso di evidenziare che in tutte le sperimentazioni di cui si ha contezza nell’ambito della p.a. questo requisito è sussistente ed è necessario prendere atto di tale prassi. Ecco perché la distinzione tra la fattispecie del telelavoro e del lavoro agile è ben chiara al datore di lavoro pubblico: nel primo caso, il telelavorista effettivamente svolge la sua prestazione dal suo domicilio e sono previsti rientri (in alcuni casi settimanali, in altri “compattati” in più giorni consecutivi sul mese) al fine di evitare il rischio dell’isolamento; il lavoro agile invece, almeno in questa prima fase pionieristica a cavallo della previsione legislativa e delle successiva direttiva, è concepito quasi quale una sorta di benefit, stante la possibilità di svolgere la prestazione presso luoghi diversi dalla sede si lavoro per una serie limitata di giorni nell’arco di un mese (in alcuni casi tre o quattro, non consecutivi). Senza potere qui ulteriormente tornare sul tema della diffusione del telelavoro, c’è da osservare che la strumentazione che per il lavoro agile può limitarsi a dispositivi portatili, di proprietà dell’Amministrazione e messi a disposizione dei lavoratori nei giorni di effettivo svolgimento della prestazione “agile: anche in presenza di software ad hoc o connessioni specifiche con le banche dati utilizzate dai vari enti, essi hanno indubbiamente un costo inferiore a quello relativo all’approntamento di una postazione fissa. In conclusione, per tornare su un punto che si considera centrale, si concorda con la necessità di monitorare, valutare e se vogliamo anche “accompagnare” le riforme in un’ottica che forse appartiene poco al nostro policy maker, ancor meno al datore di lavoro pubblico. Il rischio è quello di “fiammate” di interesse, dovute a una certa moda (e che il lavoro agile sia molto à la page mi pare una constatazione) che come tale rischia però di essere transeunte. Il pericolo infatti è quello di caricare di troppe attese uno [continua ..]