Una recente sentenza della Corte di Appello di Firenze ha dichiarato la legittimità del licenziamento comunicato a mezzo sms. I giudici, ripercorrendo strade interpretative da tempo consolidate, hanno ritenuto questo tipo di comunicazione idoneo a garantire al lavoratore la effettiva conoscenza della volontà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro. Una simile soluzione ermeneutica, però, apre spazio a non pochi dubbi in tema di forma scritta e in particolare sulla capacità dei nuovi mezzi di comunicazione – sempre più utilizzati nella società moderna digitalizzata – di rispondere alle effettive esigenze di tutela imposte dall’art. 2 della l. n. 604/1966.
A recent ruling by the Firenze Appellate Court deemed legal using text messages to communicate employment termination. The Judges, following well accepted jurisprudence, have concluded that this type of communication is sufficient to provide the employee with a clear understanding of the employer’s intention to terminate the employment contract. Such hermeneutic solution, though, opens the way to significant uncertainty with regards to the written form and, in particular, on the effectiveness of new communication methods – more and more in use in our modern, digital society – to deliver on the legal protections requirements mandated in article 2 of law 604/66.
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Una recente sentenza [1], relativa ad un licenziamento irrogato a mezzo sms, offre lo spunto per alcune brevi riflessioni in merito al valore e al ruolo oggi attribuiti alla forma dell’atto di recesso del rapporto di lavoro in una realtà –come l’attuale – sempre più digitalizzata. Nel caso in questione, ad un lavoratore veniva comunicato il licenziamento tramite un messaggio sms, inviato dal cellulare aziendale, con il seguente contenuto: «Purtroppo ci sarà un cambio societario che non mi consente più di avvalermi della tua preziosa collaborazione. Ti ringrazio per il momento e ti auguro ogni bene». A seguito di tale comunicazione e della conseguente impugnazione da parte del dipendente, il giudice di primo grado, chiamato ad esprimersi su diverse questioni relative al rapporto di lavoro intercorso tra le parti, riconosceva la sussistenza di un licenziamento verbale intimato con messaggio sms e qualificava perciò il recesso come inefficace, ordinando al datore la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. Instaurato, quindi, il secondo grado di giudizio, la Corte di Appello di Firenze ribaltava la precedente decisione, accogliendo pur parzialmente il ricorso, e, in particolare, dichiarava l’efficacia del licenziamento («anche se non scritto su carta»), derubricando la questione a mero vizio di motivazione dell’atto di recesso, punibile esclusivamente con l’indennizzo previsto dalla tutela obbligatoria. In particolare, il Collegio dissentiva dal primo giudice «sul fatto che nel caso in esame il licenziamento intimato per sms [fosse, nda] di per sé privo di forma scritta ai sensi dell’art. 2 L. n. 604/66», in quanto tale comunicazione «fu intesa dal destinatario come effettiva comunicazione di un licenziamento …», al punto da consentirgli di procedere alla relativa impugnazione. A conforto di tali conclusioni, i giudici di appello avevano ritenuto che il messaggio sms potesse «essere assimilato» sia al telegramma dettato per telefono, mezzo di comunicazione a cui la giurisprudenza da tempo attribuisce piena legittimità formale (come si chiarirà in seguito), sia ad una comunicazione e-mail, documento quest’ultimo – secondo l’art. 20 comma 1-bis del d.lgs. n. 82/2005 “Codice dell’amministrazione [continua ..]
Come già chiarito, i principi sottesi alle pronunce richiamate abbracciano in pieno un atteggiamento antiformalistico e teleologicamente orientato [6] che considera pienamente rispettate le prescrizioni in materia di forma ogni qual volta l’atto sia in grado di realizzare il proprio obiettivo. Tale orientamento prende le mosse da una nota sentenza del 1995, con la quale la Corte di Cassazione ha riconosciuto la piena idoneità a soddisfare il requisito formale imposto dalla legge al mero atto di consegna al lavoratore del prospetto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto da parte del datore di lavoro; comportamento questo, secondo i giudici, capace di costituire una «inequivocabile manifestazione della volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto» [7]. Da allora la giurisprudenza ha lentamente eroso la pregressa tesi dell’essenzialità della forma scritta per la comunicazione del recesso [8], interpretando teleologicamente il requisito formale previsto dall’art. 2 della legge n. 604/1966, guardando, cioè, non alla forma dell’atto ma alla concreta realizzazione dei fini per cui la prescrizione di forma è stata imposta [9]. Infatti, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, con numerose sentenze, i giudici di legittimità hanno ritenuto ripetutamente che ai fini della validità formale del recesso siano indispensabili tre elementi: 1) la manifestazione di volontà del datore di lavoro di porre fine al rapporto; 2) la comunicazione di tale volontà datoriale; 3) la forma scritta, anche indiretta o implicita, purché chiara e inequivocabile [10]. Pertanto, secondo questa lettura finalistica del dato normativo, peraltro avallata da autorevole dottrina [11], il licenziamento non necessiterebbe di una forma “tipica”, essendo sufficiente che la sua comunicazione sia certa e che la volontà negoziale di estinguere il rapporto sia esternata da un atto scritto da cui emerga la volontà chiara e definitiva del datore di lavoro di recedere dal rapporto [12]. Tale orientamento, così fortemente consolidato da protrarsi fino ad oggi, fonda le proprie radici anche nel dato incontrovertibile che la normativa del ’66 non abbia previsto specifiche formule sacramentali per l’intimazione del licenziamento [13], lasciando sostanzialmente [continua ..]
Il licenziamento, com’è noto, in quanto atto unilaterale recettizio, produce effetto nel momento in cui perviene a conoscenza del lavoratore [30] e il requisito della forma scritta, secondo la Suprema Corte «è soddisfatto in presenza di un atto scritto dal soggetto da cui perviene la dichiarazione ai sensi dell’art. 2702 c.c.» [31]. La forma scritta ad essentiam [32], quindi, impone che la paternità dell’atto sia (quanto meno) attribuibile al datore di lavoro, il quale –fino ad oggi– è stato legittimamente riconosciuto attraverso la sottoscrizione dell’atto scritto di risoluzione, non essendo ammissibili forme alternative di attribuzione al soggetto autore del licenziamento [33]. «Tale conclusione – che non ha dato luogo in passato a particolari discussioni – va rivista alla luce dei nuovi mezzi di trasmissione dei documenti» [34]. Infatti, anche se di regola la comunicazione avviene tramite la tradizionale raccomandata a.r. indirizzata al domicilio del destinatario, sempre più spesso capita che – in conseguenza dell’evoluzione tecnologica – si utilizzino le nuove strumentazioni a disposizione delle aziende (fax, telegrammi fonodettati, e-mail). Pertanto, accanto al “metodo tradizionale della raccomandata”, non di rado vengono sottoposte al vaglio della magistratura fattispecie in cui il ricorso a mezzi di comunicazione “alternativi” non sia utilizzato con una funzione di mera “anticipazione” o “preannuncio” dell’atto di recesso (a cui dovrebbe poi seguire la conferma formale a mezzo raccomandata), ma come vero e proprio atto (unico) di licenziamento. Ogni mezzo di comunicazione innovativo, però, presenta caratteristiche formali singolari (se non esclusive), che lo rendono non facilmente assimilabile agli altri e non necessariamente idoneo a garantire gli oneri formali richiesti per legge. Più precisamente, procedendo ad una rapida analisi dei moderni sistemi di comunicazione (d’uso comune), partendo dal fax, si può notare come questo strumento informatico sia certamente in grado di soddisfare i requisiti dell’atto scritto richiesti dalla legge n. 604/1966 ai fini della comunicazione di licenziamento, mentre più difficilmente può fornire la medesima certezza per quanto riguarda [continua ..]
Appare evidente, a tal punto, che l’idoneità o meno per uno strumento informatico a costituire legittimo mezzo di comunicazione del licenziamento si fonda – a seconda degli orientamenti interpretativi (più rigorosi o più elastici) – o sulla capacità dell’atto di rispondere ai requisiti formali previsti ex art. 2702 c.c. [52], oppure sulla sua attitudine a raggiungere i suoi effetti attraverso una mnifestazione di volontà chiara e inequivoca proveniente dal datore di lavoro [53]. Ne consegue che, in mancanza di un’univoca (rectius, aggiornata) precisazione legislativa, ogni conclusione viene lasciata alla libera valutazione degli interpreti, con l’inevitabile rischio di assecondare giudizi altalenanti, che potrebbero risentire di un certo soggettivismo giudiziale, in alcuni casi, volto a valorizzare maggiormente il cambiamento indotto dalla digital society, in altri, diretto a ricalcare orientamenti più “classici”, che confermano una lettura rigorosa del precetto normativo. Questa (precaria) condizione di incertezza interpretativa sembrerebbe ancor più evidente nella valutazione che emerge da poche, discordanti sentenze (peraltro di primo grado), in cui i giudici si sono pronunciati in merito all’uso “rescissorio” dell’sms. Mentre, infatti, alcuni giudici hanno riconosciuto «l’efficacia del licenziamento tenuto conto dello stato della tecnologia e della valenza dell’sms nell’attuale sistema di scambi e delle comunicazioni, a perseguire gli scopi della l. n. 604/66» [54], altra giurisprudenza, ha ritenuto «inidonea la modalità dell’sms per l’intimazione del licenziamento, in quanto non garantisce con certezza l’autore dell’atto, né la data di invio e ricezione» [55]. Nonostante le incertezze che connotano il messaggio sms, la recente Corte di Appello di Firenze è apparsa interessata a valutare esclusivamente la capacità di questo nuovo strumento di comunicazione a raggiungere gli scopi prefissati dal mittente. Tale opzione interpretativa ha ulteriormente evidenziato la sempre più ampia disponibilità esegetica dei giudici ad attribuire legittimità formale anche all’atto “smaterializzato”, purché capace di fornire certezza inequivoca al suo [continua ..]