Nel saggio sono analizzati alcuni dei numerosi problemi esistenti, quanto alla tutela dei lavoratori in presenza di procedure concorsuali, successivamente alla recente abrogazione dell’art. 3, legge n. 223/1991.
Viene in particolare criticato l’indirizzo prevalente in giurisprudenza, favorevole alla applicazione anche ai rapporti di lavoro subordinato dell’art. 72, legge fallimentare: da cui deriva la sospensione dei rapporti, senza diritto alla retribuzione, fino a quando il curatore non decida per la prosecuzione o risoluzione (con decorrenza retroattiva, dalla dichiarazione di fallimento).
Sono inoltre analizzate diverse questioni sulla disciplina dei licenziamenti, ove effettuati da imprese sottoposte a procedure concorsuali, nonché sulla tutela dei crediti dei lavoratori in conseguenza maturati.
The essay analyzes various issues directly related with the recent repeal of Article 3, Law n. 223/1991, as far as the protection of workers is concerned.
To be more accurate, the Author focuses on the settled case-law, which tends to extend the application of Article 72 of Italian Bankrupting Law to employment relationships. As a consequence, employment relationships should be considered as suspended, without any wage payment, until the insolvency administrator establishes the continuation or the dissolution (with retroactive effects, from the declaration of bankruptcy).
Furthermore, the analysis pays attention to the dismissals’ framework and its links with bankruptcy proceedings.
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1. La protezione dei lavoratori nelle imprese sottoposte a procedure concorsuali: vecchi e nuovi problemi nell'ordinamento indifferente - 2. Il fallimento: i licenziamenti tra l'art. 2119 c.c. e l'art. 72. Le questioni aperte - 3. Sulla inapplicabilità dell'art. 72 legge fallimentare ai rapporti di lavoro subordinato - 4. Brevi rilievi sui licenziamenti posti in essere dal curatore e sulla tutela dei crediti dei prestatori - 5. Le altre procedure concorsuali - NOTE
In un saggio risalente alla metà degli anni settanta, dedicato alla tutela dei lavoratori in caso di fallimento del datore, dopo una attenta analisi delle questioni esistenti si concludeva sottolineando la necessità, de iure condendo, di «sottrarre i lavoratori alla giugulante alternativa … tra difesa del posto di lavoro e difesa delle ragioni di credito per indennità di anzianità» [1]. In seguito, nello spazio di pochi anni, il contesto giuridico mutava radicalmente. Intanto per quel che concerneva i licenziamenti: divenuti, secondo una fortunata descrizione dottrinale, «impossibili» [2]. Anche in caso di fallimento [3]. Poi perché l’introduzione del “trattamento di fine rapporto”, in luogo dell’“indennità di anzianità”, e soprattutto la previsione dell’intervento del “fondo di garanzia” sdrammatizzarono in buona parte la questione della tutela dei crediti retributivi dei prestatori subordinati. Contemporaneamente d’altra parte a tali crediti veniva pure riservata protezione più elevata, al cospetto degli altri [4]. Gli anni ottanta videro progressivamente superare i vincoli al licenziamento, emersi con il “diritto del lavoro dell’emergenza” [5]. Tuttavia nell’importante riforma realizzata con la legge n. 223/1991 fu inserita una previsione che per lungo tempo ha poi rappresentato un imprescindibile riferimento, quanto alla gestione dei rapporti di lavoro, a fronte di procedure concorsuali: l’articolo 3. Qui infatti, come noto, si individuava una specifica fattispecie di intervento straordinario di integrazione salariale, «per un periodo non superiore a dodici mesi»: operante qualora «la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata». Prevedendosi altresì la possibilità di una proroga, per un intervallo temporale «non superiore a sei mesi», laddove fossero invece ora emerse «fondate prospettive di continuazione o ripresa dell’attività». Ai sensi del comma 3 dell’articolo, si stabiliva infine che il «curatore, … liquidatore o … commissario» avessero «facoltà di collocare in mobilità, ai sensi dell’art. 4, ovvero dell’art. 24, i lavoratori eccedenti», nei casi in cui non [continua ..]
A proposito dei licenziamenti, una volta eliminato l’art. 3 della legge n. 223/1991, torna ad assumere rilievo, come unico riferimento normativo esistente nell’ordinamento giuslavoristico, il comma 2 dell’art. 2119 c.c.: qui si dispone che «non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda». Su questa esclusiva, esile base si deve allora tornare ad affrontare all’incirca le medesime questioni analizzate nel saggio citato di Nanni Alleva, alla metà degli anni settanta. E cioè se gli effetti sul rapporto di lavoro subordinato generati dal fallimento consistano, secondo tre opzioni alternative: «a) nello scioglimento de iure del contratto; b) nel suo ‘arresto’, che diviene definitivo, trasformandosi in estinzione se gli organi fallimentari non decidono di subentrare nel contratto; c) nella sua continuazione pura e semplice con la curatela» [13]. Se la prima ipotesi appariva «inaccettabile» già allora, per palese contrasto proprio con l’art. 2119 c.c. – da cui è sempre stato dedotto che fosse il licenziamento a determinare la risoluzione del rapporto, anche in presenza di fallimento e liquidazione coatta amministrativa; e che restasse nel contempo comunque fermo, in tali casi, il diritto al preavviso da parte del lavoratore [14] – erano la seconda e la terza a dividere gli interpreti: la seconda tuttavia, basata sull’art. 72 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (d’ora in poi legge fallimentare), risultando in definitiva preferita, soprattutto in giurisprudenza, anche perché apparentemente in grado di realizzare una composizione proprio con la norma codicistica. Infatti «da una parte l’art. 72 … non comporta l’estinzione automatica del rapporto, e dall’altra l’art. 2119, comma 2°, non dispone la continuazione automatica di quello di lavoro: nulla quindi si opporrebbe a ritenere che anch’esso entri nella fase di ‘arresto’, salve poi le diverse possibilità conseguenti alle determinazioni del curatore» [15]. Nella originaria formulazione l’art. 72 si riferiva però esclusivamente al contratto di compravendita: l’applicazione della disposizione ai rapporti di lavoro derivando da indirizzo che la riteneva [continua ..]
Alcune delle questioni segnalate sembrano per il vero risolvibili, alla luce di una corretta considerazione degli istituti come della loro funzione, anche ritenendo applicabile ai rapporti di lavoro subordinato l’art. 72 della legge fallimentare. Ecco quindi che l’esclusione del diritto del prestatore di «far valere nel passivo» il credito alla “indennità di mancato preavviso” appare sotto più profili errata. Intanto perché a quest’ultima deve essere riconosciuta natura retributiva e non risarcitoria. Ciò emergendo alla luce di molteplici consolidati elementi: senz’altro l’incontestata considerazione di tale indennità nella nozione di retribuzione, ai fini del calcolo del “trattamento di fine rapporto” (nonché di numerose ulteriori voci) come degli obblighi contributivi [23]. Anche però il riconoscimento della medesima, in termini cumulativi rispetto alla indennità – questa invece senz’altro risarcitoria – di cui all’art. 18, comma 5, legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012: sul presupposto appunto di una differente natura come funzione [24]. D’altra parte nell’economia del testo dell’art. 72, comma 4, legge fallimentare, è ben più plausibile considerare l’“indennità di mancato preavviso” quale credito «conseguente al mancato adempimento» piuttosto che integrante un «risarcimento del danno». Una differente opzione per inciso comportando la diretta violazione dell’art. 2119 c.c., comma 2: posto che in tal modo verrebbe meno il principale effetto, a tutela dei prestatori, derivante dalla norma codicistica. Più complesso sembra invece giungere ad un esito positivo per i lavoratori, a proposito del diritto alla Naspi: perché l’ipotetica (e ragionevole) equiparazione del recesso del lavoratore alle dimissioni per giusta causa … sembra proprio frontalmente contraddetta dall’art. 2119 c.c., comma 2; mentre la messa «in mora» del curatore, ai sensi dell’art. 72, comma 2, può gettare ombre sulla sussistenza del requisito della involontarietà della perdita dell’occupazione. Non si esclude neanche ora la possibilità di giungere ad interpretazioni idonee ad affrontare i problemi sociali emergenti [25], le quali sarebbero [continua ..]
Deve allora dedursi da quanto precisato che, per tornare alle tre ipotetiche alternative di cui si diceva, gli effetti generati dal fallimento sul rapporto di lavoro subordinato non possano che consistere «nella sua continuazione pura e semplice con la curatela» [36]: questa apparendo l’unica soluzione compatibile con quanto da sempre rilevato, ai sensi dell’art. 2119 c.c., comma 2 (a proposito – si ripete – della configurazione dell’atto risolutivo del curatore quale licenziamento nonché del conseguente diritto del prestatore al preavviso) [37]; soprattutto con il dettato costituzionale. In conseguenza il curatore sarà vincolato dalle regole generali sui licenziamenti, pur con le correzioni di ordine interpretativo connesse allo specifico contesto in cui si opera [38]. Le quali tuttavia non pare proprio consentano di prescindere dalla dimostrazione della «sussistenza di ragioni organizzative aziendali» nonché del «loro rapporto di adeguatezza con i licenziamenti emanati», in caso di licenziamenti individuali; inoltre dal rispetto delle previsioni stabilite dalla legge n. 223/1991, a proposito del licenziamento collettivo [39]. L’abrogazione dell’art. 3 di quest’ultima legislazione tuttavia, oltre a produrre non secondari inconvenienti proprio in caso di licenziamenti collettivi, come si dirà, rende estremamente problematica l’individuazione di soluzioni adeguate, in relazione ai problemi in più occasioni menzionati. In effetti può in conseguenza tornare a manifestarsi il più antico e noto dei “corti circuiti” creati dalle procedure concorsuali: quello della concorrenza, per i dipendenti delle imprese coinvolte, tra la veste di lavoratore e quella di creditore, posto che l’attenzione alla prima può andare a detrimento della seconda (e viceversa) [40]. Mentre non è neanche possibile dire, nell’ordinamento vigente, che in tal modo emergano molte maggiori possibilità, rispetto a quelle prospettabili a fronte di applicazione dell’art. 72, di realizzare l’unica operazione vantaggiosa per tutti i soggetti coinvolti (e tale da ricomporre la schizofrenica cesura, per i dipendenti, di cui si diceva): il salvataggio e la circolazione di almeno parte dell’impresa insolvente. Perché in carenza appunto di uno strumento come quello [continua ..]
L’art. 2119 c.c., comma 2, come già indicato, si riferisce pure alla liquidazione coatta amministrativa. La disposizione d’altra parte è stata ritenuta applicabile, «in via di analogia, per comunanza di ratio», anche alla «procedura di concordato preventivo» [64]: in questa logica tuttavia potendo essere ritenuta operante per la serie intera delle procedure concorsuali. Nello stesso tempo l’art. 3, legge n. 223/1991, prendeva in considerazione i «casi di dichiarazione di fallimento, di emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria»; anche però l’ipotesi di «ammissione al concordato preventivo consistente nella cessione dei beni». Ebbene sembra possibile dire che quanto fino ad ora sostenuto valga per l’insieme delle procedure concorsuali: specifiche disposizioni rendendo anzi più agevole e meno controverso, in relazione ad alcune di queste, l’esito indicato. A proposito innanzitutto della liquidazione coatta – «procedura concorsuale con finalità liquidatoria», la quale «non si atteggia a procedimento a carattere giurisdizionale, bensì si caratterizza per essere una procedura amministrativa» – è in effetti possibile replicare esattamente quanto precisato per il fallimento: la funzione dell’istituto così come le norme coinvolte, cioè l’art. 2119 c.c. e l’art. 72 legge fallimentare (ai sensi dell’art. 201 della medesima legge), risultando le medesime [65]. Mutano invece sia le disposizioni, soggette ad evoluzioni continue ed in più momenti convulse, che soprattutto la funzione, prendendo in considerazione l’amministrazione straordinaria. L’art. 3 della legge n. 223/1991 faceva in particolare riferimento alla “amministrazione straordinaria della grande impresa in crisi”, già disciplinata dalla legge n. 95/1979 [66]: cui sono però seguiti il d.lgs. n. 270/1999, a proposito ora della “amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza” [67]; subito dopo inoltre numerosi ulteriori provvedimenti, introdotti quasi sempre per gestire specifiche vicende di crisi ed insolvenza di importanti imprese (da Volareweb a Parmalat ad Alitalia ecc.) [68]. Mentre la procedura, [continua ..]