L’articolo analizza l’evoluzione della disciplina lavoristica delle società a controllo pubblico, approfondendo dapprima la normativa che si è applicata al sistema delle c.d. aziende municipalizzate nel corso di tutto il Novecento, all’interno del quale la contrattazione collettiva ha svolto un importante ruolo di supplenza della legge. Tale settore formava una sorta di sottosistema anche con riferimento alle relazioni sindacali, con propri organismi e una prassi che si distingueva dal sistema confindustriale. Il saggio espone gli impatti in tema di disciplina lavoristica conseguenti alla privatizzazione delle aziende municipalizzate, trasformate nel corso degli anni Novanta in società private controllate dagli enti locali, ed enuncia, infine, i principali problemi in tema di rapporto di lavoro connessi alle disposizioni di cui al T.U. n. 175/2016.
The article analyses the evolution of the labour law provisions about public administrations controlled companies, deepening the provisions applied to the so-called municipal enterprises during the twentieth century. In this kind of enterprises, collective bargaining played an important role and substituted the law. This sector formed a sort of subsystem, even as regards as the trade union relations, because it had his own organizations and its practice distinguished from that of the industrial system. The essay explains how the privatization of municipal enterprises (which were converted into private companies, controlled by local authorities, during the Nineties) has affected labour law. In the end, the article enunciates the main problems concerning the employment relationships ruled by the provisions of the Legislative Decree no. 175/2016.
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1. Introduzione: diritto del lavoro e società pubbliche - 2. Le 'piccole privatizzazioni' degli anni Novanta - 3. Il 'secolo lungo' delle aziende municipalizzate: note in tema di rapporto di lavoro e disciplina previdenziale - 4. Il ruolo di supplenza dell’autonomia collettiva - 5. Il sottosistema delle relazioni sindacali nel settore delle aziende municipalizzate - 6. Dalle municipalizzate alle multiutility - 7. I profili giuslavoristici del T.U.S.P. tra vecchi problemi endemici e nuove questioni interpretative - NOTE
La disciplina dettata dal d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica» (in seguito anche T.U.S.P.) emanato sulla base della delega contenuta all’art. 18 della legge n. 124/2015 ha rappresentato una delle principali «riforme settoriali» [1] che peculiarmente ha contribuito a comporre il “corpus” normativo in tema di pubblica amministrazione posto in essere durante la XVII legislatura, anche noto come Riforma Madia. Come si ricorderà, la sentenza della Corte costituzionale n. 251/2016 [2] aveva determinato una complessa situazione di stallo giuridico/politico, risolta, almeno con riferimento all’argomento qui in oggetto [3], soltanto con l’emanazione del d.lgs. correttivo 16 giugno 2017, n. 100. L’importanza di un testo unico in materia è evidente: si tratta di una norma organica per definizione, sebbene vi sia chi definisca «improprio» l’utilizzo di una terminologia siffatta, poiché il decreto «non conterrebbe una disciplina generale ma una raccolta di discipline diverse» [4]. Dall’angolo visuale del diritto del lavoro, tale provvedimento ha intanto una indubbia valenza di metodo: è senz’altro funzionale all’obiettivo di mettere a sistema l’insieme delle regole lavoristiche che si applicano alle società a partecipazione pubblica. Il presente contributo ha quale scopo quello di esaminare le principali vicende lavoristiche di queste realtà fino al momento dell’emanazione del testo unico, con un particolare focus rispetto alle società partecipate dagli enti locali, tema che appare di grande rilevanza anche per via della frammentazione e complessità del quadro normativo di riferimento in tema di servizi pubblici. Al contempo tale panoramica vuole essere prodromica e funzionale all’obiettivo più generale del fascicolo della Rivista che è quello di approfondire le disposizioni contenute nel T.U.S.P., di saggiarne l’incisività e di segnalare le non poche questioni ancora aperte. L’analisi delle vicende delle regole lavoristiche che si applica(va)no alle molteplici modalità attraverso le quali le pubbliche amministrazioni ponevano e pongono in essere attività di impresa [5] ha attraversato carsicamente il diritto del lavoro, fin [continua ..]
Il punto di snodo delle principali vicende che hanno coinvolto le società pubbliche «si colloca all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, nell’ambito dei processi di liberalizzazione dei mercati, indotti ed accompagnati dall’intervento, con un nuovo ruolo da protagonisti, dei sistemi regolatori sovranazionali» [12]. Non si può ignorare la circostanza che proprio in quegli anni trovi compimento, dopo un faticoso percorso, fatto di distinte fasi, la privatizzazione rectius contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego. L’evoluzione normativa dei due settori non si è sviluppata in parallelo, perché con riferimento al rapporto di lavoro alle dipendenze delle p.a. non sono certo mancate le riforme organiche, anzi: le contraddizioni e le criticità derivano semmai dai giudizi in ordine alla reale e concreta applicazione delle stesse. Non casualmente si è impiegato il termine contrattualizzazione con riferimento al pubblico impiego, in luogo di privatizzazione. Questione non nuova, già abbondantemente arata dalla dottrina [13], e che – va da sé – cela in realtà una questione alta, di ordine ideologico, più che una mera preferenza di ordine lessicale. In questa sede però l’opzione terminologica è altresì funzionale ad evitare fraintendimenti proprio con la coeva stagione delle privatizzazioni, locuzione che descrive un processo complesso, il quale anche da un punto di vista giuridico ha portato ad esiti non unitari bensì all’utilizzo di una pluralità di modelli differenti. Il termine privatizzazione [14] è infatti polisenso: si pensi, per fare solo un esempio, alla distinzione evocata spesso dalla dottrina tra una privatizzazione formale – col quale si indica o ancora meglio ci si limita a constatare il mutamento di status giuridico di un ente già pubblico che assume una configurazione di diritto comune – e una privatizzazione sostanziale, che descrive invece un effettivo passaggio di controllo dal pubblico al privato. Tale discrimine, è stato scritto, sarebbe privo di ricadute sul diritto del lavoro, nel senso che anche in passato (ci si riferiva alla stagione precedente agli anni Novanta) ben si verificava talora che «la disciplina del rapporto pote[sse] anche prescindere dalla natura del datore [continua ..]
La storia della municipalizzazione ha attraversato l’intero Novecento, secolo che – mutuandone, a contrario, la celebre definizione dello storico Hobsbawm – per tale tipo di realtà è stato tutt’altro che breve: basti evidenziare come la legge istitutiva delle (allora) aziende municipalizzate fosse del 1903 [21]. Tale sistema dall’assetto di disposizioni emanate per la prima volta agli inizi del Novecento ha tratto linfa, pur con naturali modifiche, per oltre un secolo. Le disposizioni in questione non furono infatti del tutto superate neanche a seguito della riforma delle autonomie locali dettata con la legge 8 giugno 1990, n. 142 venendo infine abrogate soltanto dall’art. 24 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 che rimandando ad un apposito “allegato A”, ha espunto dall’ordinamento una serie nutrita di provvedimenti legislativi, ormai più vicini all’archeologia giuridica che al diritto vivente, ma comunque, allora, ancora formalmente in vigore. Appare utile rimarcare, con riferimento alla natura dell’azienda municipalizzata, che essa era dotata certamente di una sua autonomia rispetto all’ente locale (sebbene si sia lungamente riflettuto sul “grado” e sulle modalità entro le quali detta alterità si manifestasse) ma priva di personalità giuridica e questo assunto, nonostante isolate opinioni di senso opposto [22], rappresentava uno dei non numerosi punti fermi in materia, pacificamente sostenuto dalla dottrina [23] e dalla giurisprudenza, fin da epoca risalente [24]. Le aziende municipalizzate venivano costituite con procedure ad hoc dagli enti locali e agivano «seguendo i canoni gestionali tipici dell’imprenditoria privata [ed erano] guidate da un direttore, parimenti scelto dall’autorità pubblica» [25] mediante designazione, con procedura ad evidenza pubblica, da parte del Consiglio comunale. L’azienda rappresentava – almeno a seguito della prima legislazione in materia – un organo dell’ente locale, e questi, sia detto per inciso, rimaneva titolare del servizio pubblico reso per il tramite dell’organo strumentale il quale, sebbene dotato di una più o meno ampia autonomia (negoziale, patrimoniale, processuale) era comunque sottoposto a una articolata serie di poteri di [continua ..]
Le aziende municipalizzate concentrarono le proprie attività in alcuni macro settori principali – quali il trasporto pubblico locale, l’ambito dell’energia elettrica, il settore del gas e dei servizi idrici nonché, più di recente, quello dei servizi ambientali – e in altri settori che possiamo definire minori alla luce del numero di aziende coinvolte, all’interno dei quali non possiamo non menzionare alcune realtà comunque di un certo peso e di una certa diffusione su scala nazionale quali le Centrali del latte e le Farmacie comunali. In realtà non è certamente neutra, anche ai fini dei profili lavoristici, l’esatta individuazione dell’attività concretamente esercitata. L’esempio più palmare è rappresentato dal caso delle aziende esercitanti il trasporto pubblico locale, tanto che il lavoro degli autoferrotranvieri [33] è comunemente considerato un rapporto di lavoro speciale. Ritornando al tema dell’autonomia collettiva nel settore delle municipalizzate è di tutta evidenza che la stessa abbia svolto un ruolo decisivo nella determinazione degli assetti coinvolti, anche alla luce dell’esile trama legislativa in tema di rapporto di lavoro. Altrettanto chiara è la circostanza per cui le organizzazioni sindacali spesso riuscirono ad imporsi, vista quella che si può definire quale “debolezza” del datore di lavoro municipale (evocando una ben nota riflessione che è stata proposta in prima battuta per il datore di lavoro pubblico) ben oltre quello che oggigiorno considereremmo l’ordinario svolgersi delle relazioni industriali. Una introduzione sugli attori e sulla struttura della contrattazione collettiva appare necessaria: a partire dal 1947 fu la Co.M. – Confederazione delle municipalizzate – a rappresentare gli interessi delle federazioni di categoria [34] alle quali aderivano le singole aziende municipalizzate. Dal 1967 la stessa organizzazione assumerà il nome di Cispel [35] Confederazione italiana servizi pubblici enti locali e negli anni più recenti quello di Confservizi – Confederazione dei servizi pubblici locali. Attualmente la confederazione è composta da due “macro” federazioni: Utilitalia, a sua volta frutto della fusione tra Federutility – che rappresentava le aziende del [continua ..]
La tendenza di fondo delle relazioni sindacali del settore era rappresentata da una spiccata autonomia di quello che, a ragione veduta, ben si può considerare un sottosistema in sé conchiuso dell’ordinamento intersindacale, il quale aveva preso corpo a seguito di una serie di accordi interconfederali, il più significativo dei quali fu stipulato dalla Cispel e da Cgil Cisl e Uil nel 1989 [41]. Tale protocollo aveva una struttura e un contenuto poliformi. Esso dettava le linee generali della contrattazione collettiva, indicandone gli obiettivi e prevedendo quattro livelli negoziali: interconfederale, di settore, territoriale e aziendale. Con riferimento al livello interconfederale vi è da segnalare la costituzione di una struttura paritetica, cui erano affidati compiti di informazione e consultazione sulle linee di politica dei servizi pubblici locali su un nutrito elenco di materie che invero coinvolgeva anche profili prettamente politici, essendo ad esempio previsto che detta struttura avrebbe curato «l’acquisizione di elementi circa gli indirizzi generali delle parti nei diversi settori dei pubblici servizi; la conoscenza e l’approfondimento di eventuali interventi sull’assetto istituzionale degli enti locali: decentramento, poteri, compiti, attribuzioni, autonomia finanziaria ed effetti sul rapporto ente locale-aziende pubbliche locali» nonché «la valutazione del quadro socio-economico in cui operano le imprese pubbliche locali e quella delle relative prospettive generali settoriali per i riflessi conseguenti sulle politiche del lavoro e per gli effetti che anche sul piano del costo del lavoro possono derivare alla capacità concorrenziale delle imprese suddette». Ma non va dimenticato l’orizzonte più ampio entro il quale si collocava l’accordo Cispel che era costituito dal modello neo-istituzionale [42] concretatosi (anche) nella cd. stagione dei protocolli, il capofila dei quali era rappresentato dall’accordo Iri [43]. Con riferimento al protocollo stipulato dalla parti rappresentanti del sistema della municipalizzate, il contenuto che all’interprete odierno appare più interessante, non risiede tanto nella struttura – senza dubbio complessa – entro la quale si muoveva la negoziazione di quelle aziende, quanto il ruolo anticipatorio rispetto alla legge n. 146/1990 che può essere [continua ..]
L’assetto di proprietà e gestione dei servizi pubblici ha subìto, sempre negli anni Novanta del secolo scorso, una rilevante spinta verso modelli caratterizzati dall’impiego di strumenti organizzativi e gestionali di tipo privatistico. Questi hanno trovato specifica disciplina nel d.lgs. n. 267/2000 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, che al Titolo V rubricato «Servizi e interventi pubblici locali» (artt. 112 ss.), a fianco degli strumenti classici di gestione del servizio (in economia, a mezzo di azienda speciale, in concessione) ha visto l’ingresso «di forme di gestione comprendente la gestione a mezzo di s.p.a. o di s.r.l. a prevalente capitale pubblico locale e la gestione a mezzo di s.p.a. con partecipazione minoritaria degli enti locali» [57]. A questo quadro, così delineato, occorre aggiungere che è stato di particolare rilievo il fenomeno che determinò il passaggio alle cd. aziende multiutility; tale circostanza ha avuto un forte impulso proprio dalla liberalizzazione e dall’apertura dei mercati nazionali, in primo luogo dell’energia, e ha condotto molte società, con storie e organizzazioni anche molto differenti, ad operare contemporaneamente in più settori nonché nelle fasi finali della distribuzione e vendita, con una importanza crescente in termini di rilevanza economica. In alcuni casi dalla fusione di storiche realtà locali sono nate società di primaria importanza, alcune delle quali quotate in borsa [58]. La dottrina cominciò dunque ad approfondire il tema di come il complesso mutamento della configurazione giuridica delle (allora) aziende municipalizzate, potesse rientrare nel più ampio spettro dei processi di privatizzazione che coinvolgeva il settore dell’impresa pubblica nel nostro ordinamento. Ovviamente tale domanda non era genericamente da intendere come rivolta a rispondere ad esigenze di mera classificazione dei fenomeni, bensì funzionale a comprendere se, e in che misura, quel processo si ripercuotesse sulla disciplina dei rapporti di lavoro alle dipendenze di tali aziende. Gli esiti di quella riflessione, ai quali ci associamo, sono ancora attuali e così sintetizzabili: le c.d. «piccole privatizzazioni», intendendo con tale dizione quelle che hanno interessato le modalità di gestione dei servizi pubblici [continua ..]
L’analisi sistematica in ordine alla ricostruzione di normative, istituti e di prassi relative alle relazioni sindacali di questo sottosistema regolativo rappresentato dalle società pubbliche, in special modo di quelle partecipate dagli enti locali, è necessaria e funzionale non soltanto in chiave storica ma soprattutto ai fini di una piena comprensione dell’attuale fenomeno perché, come spesso avviene, se hegelianamente ciò che è noto non è conosciuto, allora alcuni retaggi, alcune incrostazioni e “non detti”, lungi dal rappresentare un elemento del passato, in realtà finiscono per condizionare, in maniera rilevante, anche il legislatore odierno. Due temi su tutti, tra l’altro intrecciati, si ritiene possano avvalorare tale opinione. Il primo riguarda uno dei capisaldi del d.lgs. n. 175/2016 vale a dire la normativa in tema di «reclutamento del personale» [61]: già l’utilizzo del termine non è neutro e tradisce una precisa opzione in termini di politica del diritto, dal momento che l’art. 19 del T.U. rappresenta in realtà l’acme di un processo di pubblicizzazione del processo assunzionale di queste società, che parte almeno da un decennio, con modalità differenti, e che determina una rilevante procedimentalizzazione del potere del datore di lavoro di assumere, altrimenti libero di esplicarsi fatta salva la normativa antidiscriminatoria. Ebbene, tali disposizioni con ogni probabilità non sarebbero correttamente intese se da un lato si ignorassero i numerosi casi di “mala gestio” assurti negli anni scorsi agli onori della cronaca, anche giudiziaria, e che di certo non sono estranei al sorgere di quel rilevante apparato normativo rappresentato dalle disposizioni in tema di trasparenza e anticorruzione, il quale ha senz’altro rappresentato una delle maggiori novità dell’ordinamento positivo dell’ultimo periodo: non a caso questi interventi sono stati definiti di «moralizzazione» [62]. Ma altrettanto significativa era la situazione di partenza che, già oltre due decenni addietro, al momento della trasformazione di queste aziende già municipalizzate e dunque organi della P.A., sebbene sui generis, in società commerciali, veniva così descritta: «organici ed assunzioni sono gestite con [continua ..]