L’articolo cerca indicare quali potranno essere nei prossimi anni i nodi che il diritto del lavoro dovrà risolvere e i problemi che dovrà affrontare, tenendo conto che il quadro di riferimento appare ormai irrimediabilmente mutato rispetto a quello in cui il diritto del lavoro è nato. Dopo avere brevemente esaminato la situazione italiana e avere espresso delle perplessità sulla tesi che ritiene che il diritto del lavoro abbia ormai mutato il proprio paradigma, l’articolo esamina i principali punti critici del diritto del lavoro di oggi, e cioè la crisi della nozione di subordinazione, causata dalla emersione di nuove figure di lavoratori; il rapporto con le scienze economiche e con il valore dell’efficienza, e infine la crisi del tipico meccanismo di intervento del diritto del lavoro basato sulla norma inderogabile.
* Il presente saggio è destinato agli Scritti in onore di Roberto Pessi.
The article tries to point out what will be the knots that the labor law will have to solve and the problems it will have to face in the coming years, bearing in mind that the reference framework is now irremediably changed compared to that in which labor law was born. After briefly examining the Italian situation and expressing doubts about the thesis that labor law has now changed its paradigm, the article examines the main critical points of today’s labor law, namely the crisis of the notion of subordination, caused by the emergence of new workers; the relationship with the economic sciences and the value of efficiency, and finally the crisis of the typical labor law intervention mechanism based on the mandatory rule.
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1. Uno sguardo in Italia - 2. Il trascolorare della nozione di subordinazione - 3. Diritto del lavoro e diritto privato - 4. Diritto del lavoro e economia - 5. I profili collettivi - 6. Le forme di tutela - *** - 1. A look at Italy - 2. The fragmentation of the concept of subordinate employment - 3. Labour law and private law - 4. Labour law and the economy - 5. Collective profiles - 6. Forms of protection - NOTE
Enrico Gragnoli ci ha chiamati a discutere su di un tema, cosa è il diritto del lavoro oggi e cosa sarà nei prossimi anni [1], cui è quasi impossibile fornire una risposta, a meno di non essere un indovino. E purtroppo io non lo sono. Proverò dunque non a rispondere all’interrogativo, ma a formulare solo qualche osservazione sul presente e su quali saranno nel prossimo futuro i punti che il diritto del lavoro dovrà presumibilmente affrontare e su quali saranno i nodi che si troverà a dover sciogliere. E voglio subito scusarmi se sarò costretto ad essere assertivo ed a rinunciare a dare una completa dimostrazione di quanto dirò. Inizierò dalla situazione italiana degli ultimi anni, che a mio avviso, offre qualche spunto di riflessione più generale. È una tesi molto diffusa tra gli studiosi italiani, quella secondo la quale il diritto del lavoro degli ultimi anni, precisamente dall’inizio degli anni 2000 in poi, sarebbe ormai ancillare verso la scienza economica. Anche se declinata in maniera diversa, l’affermazione è ormai diventata costante nella riflessione dottrinale italiana, o in quella di una parte cospicua della dottrina [2]. La tesi è svolta secondo angolazioni diverse: ora ricollegandola alla situazione politica italiana degli ultimi anni, caratterizzata da governi di centro destra o comunque ritenuti non labour oriented. Ora ricollegandola alla crescita delle ideologie neo liberiste, ora infine al fatto che il diritto del lavoro avrebbe perso quella vocazione politica che negli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo lo aveva collegato a movimenti di riforma più generale del modello capitalista di produzione. Quali che siano le varianti, comunque, la sostanza è che il diritto del lavoro sarebbe stato contaminato da corpi estranei alla sua originaria vocazione, tanto da potersi dire ormai prono ai dettami della Law&Economics lasciando sempre più spazi alla libertà degli imprenditori e modificandosi geneticamente, tanto da evocare un vero e proprio cambio di paradigma, nel senso chiarito da Thomas Kuhn [3]. E mia impressione però che questa ricostruzione, che ho cercato di riassumente nelle sue linee principali, pur cogliendo una parte di verità, non sia affatto convincente. In primo luogo, di che diritto del lavoro si parla? In Italia non esiste un [continua ..]
Il primo, è che l’emersione delle ragioni dell’impresa è stata considerata da molti studiosi italiani come una compromissione del diritto del lavoro, come una perdita della sua identità. L’identità del diritto del lavoro si è sempre costituita intorno al lavoro subordinato. La subordinazione e la dipendenza hanno da sempre costituito le categorie fondanti del diritto del lavoro [8]. Il diritto del lavoro si è infatti aggregato su una dicotomia semplificante, quella della coppia autonomia/subordinazione, che costituiva anche la chiave ed il criterio di accesso alle tutele, secondo uno schema fin troppo semplificante. Ma oggi è il tempo della complessità, e la dicotomia autonomia/subordinazione è meno netta che in passato ed è insufficiente ad esaurire tutte le modalità esecuzione di una prestazione di lavoro. Per un verso, l’unità concettuale della subordinazione è contaminata dall’esistenza di forme di lavoro autonomo caratterizzate da una dipendenza economica assimilabile a quella dei lavoratori subordinati [9]. È sufficiente pensare ai lavoratori di Uber, che sono stati riconosciuti come worker e cioè come subordinati dalle Corti inglesi. O ai lavoratori di Foodora, che invece sono stati ritenuti lavoratori autonomi dal Tribunale di Torino, con una sentenza che è stata peraltro riformata dalla Corte di Appello [10]. Per un altro, si diffondono nuove figure di lavoratori subordinati, che potrebbero definirsi “lavoratori cognitivi”, connotati da una forte professionalità e interessati da relazioni di lavoro partecipative che incrinano la configurazione tradizionale del rapporto di lavoro subordinato, cui si affiancano in misura sempre crescente nuove forme di welfare aziendale con l’obiettivo di coinvolgere in misura sempre maggiore i lavoratori negli obiettivi di produttività aziendali. L’effetto di queste nuove forme di collaborazione, che spesso richiedono la diretta partecipazione dei lavoratori, è quello di porsi in contrasto con il modello tradizionale di lavoratore subordinato, basato sulla rigida contrapposizione degli interessi [11]. Forme nuove di lavoro subordinato, queste, che però convivono con altre, rese da lavoratori subordinati, poco specializzati, pochissimo pagati e facilmente intercambiabili. La [continua ..]
Ma rivisitare il concetto di subordinazione vuol dire anche interrogarsi sugli scopi e sui valori del diritto del lavoro e prima ancora sulla sua stessa ragione di diritto distinto dal diritto privato. Rappresenta un convincimento molto diffuso nella dottrina lavoristica quello secondo il quale l’autonomia del diritto del lavoro risiederebbe nella tavola di valori cui esso si ispira, e nella tecnica che lo caratterizza che è riflesso e portato di quei valori [16]. Un assetto di valori che connota indefettibilmente la materia, scolpendone la diversità rispetto ad altre branche del diritto, in particolare le discipline civilistiche, ritenute più orientate al mercato. Ma il diritto privato, o almeno alcuni settori del diritto privato hanno subito importanti processi evolutivi, tali per cui non è più possibile oggi sostenere che il diritto privato sia completamente impermeabile alla dimensione sociale [17]. Basti pensare al diritto dei consumatori, nel quale si vanno diffondendo tecniche di tutela simili a quelle tipicamente lavoristiche, o alla protezione che sempre più speco viene accordata nella transazioni commerciali al contraente debole. D’altro canto, si assiste anche ad una tendenza in qualche modo opposta. Cade qui un esempio tratto dalle recenti riforme che hanno interessato il diritto del lavoro italiano. Una recente riforma ha profondamente innovato il potere dell’imprenditore di modificare l’oggetto del contratto di lavoro. È questa una prerogativa fondamentale del datore di lavoro che la nuova versione dell’art. 2103 c.c. ha regolato in maniera assai vicina ad altre ipotesi, regolate dalla legislazione privatistica, in cui viene riconosciuta ad una delle parti di un contratto il potere di variarne unilateralmente le condizioni [18]. Se così è, sembra che possano essere tratte due conclusioni. La prima è che siamo dinanzi ad una duplice tendenza: il diritto privato sembra infatti accogliere istanze maggiormente sensibili ad una dimensione sociale, mentre il diritto del lavoro, dal canto suo, è contaminato dalla maggiore rilevanza che viene data a delle tipiche libertà di mercato. E, in prospettiva, ciò potrebbe significare che diritto privato e diritto del lavoro non sono più due universi separati e distanti o comunque non comunicanti tra loro, ma che tendono ad avvicinarsi e in qualche campo, a [continua ..]
Affrontare questo nodo vuol dire anche porsi l’interrogativo dei rapporti tra diritto del lavoro e scienza economica. Chi scrive proviene da una scuola, quella di Gino Giugni, in cui era del tutto normale un’apertura verso altre discipline, come l’economia, la sociologia o le relazioni industriali. Chiedersi quali siano le conseguenze economiche delle politiche di diritto del lavoro non equivale ad accettare come unico punto di vista quello economico, mentre il diritto del lavoro dovrebbe essere il regno dei valori. L’idea che il diritto del lavoro debba disinteressarsi del tutto delle ricadute economiche delle proprie scelte è un’opinione molto condivisa. Molti pensano – in Italia o in Spagna, ad esempio – che il valore dell’efficienza non dovrebbe essere incluso tra i valori che compongono la tavolozza cui si ispira il diritto del lavoro. Ma a mio avviso è una opinione da non accettare. Innanzitutto perché è ben noto come la disciplina lavoristica possa spiegare effetti sul piano economico. Poi perché conoscere gli effetti economici che possono derivare da determinate politiche del lavoro può contribuire ad un miglioramento delle politiche pubbliche. Per fare un esempio, essere avvertiti degli effetti economici che derivano dalle politiche antidiscriminatorie non vuol dire necessariamente rinunciare o limitare tali politiche perché antieconomiche o inefficienti [22]. Si può decidere di mantenere gli stessi standard di protezione anche se da essi derivano effetti economici negativi, in considerazione della importanza che tali politiche assumono e per i valori che proteggono. Ma essere consapevoli delle ricadute economiche di un intervento può essere utile per scegliere tra diversi strumenti di attuazione quello che determini i minori svantaggi dal punto di vista economico. Da questo punto di vista la dottrina porta grandi responsabilità In Italia, come in Spagna e, anche se in misura minore, in Francia, l’atteggiamento verso l’economia è un atteggiamento di forte chiusura se non di rifiuto, mentre sarebbe auspicabile e necessario un atteggiamento opposto, pragmatico e non ideologico, aperto ad una integrazione dei due campi. Naturalmente è inutile nascondere che si tratta di un compito tutt’altro che semplice. Il conflitto tra valori di mercato e valori della persona è [continua ..]
Qualche parola va dedicata alla contrattazione collettiva. Storicamente la contrattazione collettiva si è fatta carico di una funzione anticoncorrenziale nel tentativo di preservare il contratto di lavoro ed il lavoratore dalla pura logica di scambio che governa il mercato evitando la concorrenza al ribasso tra i lavoratori, ma anche che le imprese entrassero in concorrenza tra di loro giocando sul progressivo abbattimento del costo del lavoro La globalizzazione e gli effetti della denazionalizzazione delle economie hanno rappresentato altrettanti fattori di crisi del modello tradizionale. Inoltre, come si è ormai più volte accennato, il mercato si è ormai frammentato: convivono all’interno di esso imprese innovative e tecnologicamente avanzate con sistemi di lavorazione radicalmente nuovi con vasti settori caratterizzati da lavoro nero o da lavori irregolari e mal retribuiti. La stessa frammentazione si può osservare tra le organizzazioni sindacali sia dei lavoratori che, e forse soprattutto, dei datori di lavoro: il che ha determinato anche una conseguente frammentazione della rappresentanza sindacale. L’enorme numero di contratti collettivi in Italia rende evidente questo fenomeno. Se non si vuole assistere alla definitiva perdita del ruolo delle organizzazioni sindacali è necessario ripensare profondamente la loro funzione e muoversi verso in sistema ordinato di rappresentanza che regoli per legge sia il contratto collettivo che la sua efficacia nei confronti dei lavoratori interessati.
La caratteristica tipica del diritto del lavoro, almeno in Italia, ma anche in alcuni paesi Europei, basti pensare alla Spagna o alla Francia, è data dall’utilizzo della norma imperativa. Il ricorso alla norma imperativa era funzionale ad una stagione del diritto del lavoro in cui occorreva aumentare i diritti dei lavoratori. Ma era anche espressione di una normativa incentrata sul singolo prestatore di lavoro, su una prospettiva individualistica e su una latente conflittualità. La norma imperativa era funzionale ad una visione conflittuale del diritto del lavoro in cui i diritti del singolo erano riaffermati in capo allo stesso in maniera intangibile anche dalle stesse organizzazioni sindacali. In una situazione in cui si richiede un continuo adattamento del diritto del lavoro ad una realtà in rapida evoluzione la rigidità della legge imperativa come unica tecnica di tutela deve essere rivista. E questa revisione può avvenire a due livelli. Il primo riguarda la formazione stessa della regola, la cui fonte non è più la legge, ma la contrattazione collettiva che è autorizzata a creare essa stessa la regola o a modificare la regola posta dalla norma imperativa, che diventa perciò half mandatory. Questa è la strada seguita ad esempio in Italia, ma perché sia effettivamente funzionante è necessario che agisca all’interno di un quadro legale trasparente, in cui ci sia un chiaro criterio di individuazione delle organizzazioni sindacali ed una cornice legislativa che riguardi l’efficacia del contratto collettivo. Entrambe le condizioni non sono presenti nella situazione italiana, diversamente da quanto accade invece in altri paesi europei, con la conseguenza che vi sono incertezze a volte gravi sull’applicazione del contratto collettivo. Il secondo riguarda l’applicazione della regola. La regola richiede di essere adattata alla realtà che cambia. Si è proposto di utilizzare il principio di proporzionalità come categoria generale di controllo ad es. degli atti dell’imprenditore o del potere di licenziamento. Oppure, come Davidov ha proposto, di utilizzare un modello di legislazione per principi[29]. In Francia ed in Spagna ci sono stati dei tentativi di utilizzare le clausole generali, ma non hanno avuto molto successo. In Germania la tradizione di utilizzare i criteri di Treu unD [continua ..]
Enrico Gragnoli has called us to discuss on a topic: what is labour law today and what will it be in the years to come [31]; a question which is almost impossible to answer to, unless one is a prophet or seer. Unfortunately, I am neither. I will therefore try not to answer the question, but rather to make some observations on the present state of things and on what will in the near future be the points that labour law will presumably face and what will be the crucial nodes it will have to solve. Before we begin, let me apologise because I will have to be assertive and forsake a complete demonstration of the points I will make. I will start from the Italian situation in recent years, which, in my opinion, offers grounds for more general reflection. It is a very common opinion among Italian scholars that labour law in the last years, precisely from the beginning of the 2000s onwards, would now be ancillary to economic science. This idea, albeit expressed in different ways, is a mainstay in the reflections of Italian law scholars, or at the very least, in a large share of them [32]. This thesis has been carried forward with several different approaches and angles: sometimes it has been reconnected to the Italian political situation in recent years, characterized by right-wing governments or in any case not labour-oriented governments. Sometimes it has been linked to the growth of neo-liberal ideologies, others by connecting it with the fact that labour law has lost the political vocation it had in the ’60s and ’70s, which allowed it to be strongly connected to broader-scope general reform movements of the capitalist production model. Whatever the variations, however, the substance is that labour law has allegedly been contaminated by bodies unrelated to its original vocation, so that it can now be regarded as completely subject to the orders of Law & Economics, leaving more and more room for the freedom of entrepreneurs and modifying itself genetically so as to evoke a real change of paradigm, in the sense clarified by Thomas Kuhn [33]. It is my impression, however, that while this reconstruction, which I have tried to summarize, portrays a part of truth, is not at all convincing. First of all, which labour law ar we talking about? In Italy there is no uniform labour law, but there are different gradations: for the sake of simplicity, let’s just say there is a labour law for the medium-large [continua ..]
The first point is that the focus shift on the concerns and needs of the businesses has been considered by many Italian scholars as a compromise of labour law, a loss of identity. The identity of labour law has always been built around subordinate employment (or subordinate work). The employee’s status as a subordinate to the employer has always been a staple of labour law [38]. Labour law has in fact consolidated and developed basing on a simplifying dichotomy, i.e. the one between independent and subordinate employment/work, a dichotomy which represented the key and core criterion that regulated access to the tools and forms of protection offered by the law, according to an overly simplistic scheme. But today we live in the age of complexity, and that dichotomy’s categories and borders are less sharp than in the past, making it no longer able to explain all the ways through which a work is performed. On the one hand, the conceptual unity of subordination is contaminated by the existence of forms of self-employment characterized by an economic dependence similar to that of standard employees [39]. Think, for example, to the Uber employees, who have been recognized as workers that is, as “subordinates” by the English courts. Or to the Foodora employees, who instead were regarded as self-employed or independent by the Court of Turin, even though the first verdict has been reformed by Court of Appeal [40]. On the other hand, new figures of subordinate workers are becoming popular, those we could call “cognitive workers”, with strong professional skills and subject to “participatory” work relationships that are damaging the traditional configuration of the employment relationship (employer/employee) and which are increasingly more frequently combined with new forms of corporate welfare with the aim of increasingly involving employees in corporate productivity objectives. The effect of these new forms of work, which often require the direct participation of workers, is to cause a stark contrast with the traditional model of wage labour, based on a rigid conflict of interests [41]. These new forms of employment, however, coexist with others, provided by workers with little or no specialisation, low wages and a very high turnover. The whole “employee” or “employment” category thus seems to lose unity. Under the umbrella of “employment”, [continua ..]
Revisiting the concept of subordination also means questioning the aims and values of labour law, and even more so, its very nature of a law different from private law. There is a very widespread belief in labour law scholars according to which the autonomy of labour law lies in the table of values to which it is inspired, and in the techniques that characterize it, that are both a reflection and of those values [46]. A set of values that tirelessly and constantly defines this subject matter, sculpting and shaping its distinctive traits compared to other fields of law, in particular civil law which is considered more market-oriented. But private law, or at least some areas of private law, have undergone important evolutionary processes, such that it is no longer possible today to claim that private law is completely impermeable to the social dimension [47]. Suffice it to think of consumer law, in which protection techniques similar to the typical labour law techniques are spreading, or the protection that is increasingly given in commercial transactions to the weaker party. On the other hand, another trend, somewhat contrary to this one, is also emerging. Here is an example taken from recent reforms that have affected Italian labour law. A recent reform has profoundly innovated the power of the entrepreneur to change the subject matter of the employment contract. This is a fundamental prerogative of the employer that the new version of art. 2103 of the Italian Civil Code sets very closely to other hypotheses, regulated by the private law, in which one of the parties to a contract is granted the power to unilaterally change the conditions [48]. If so, it seems that two conclusions can be drawn. The first is that we are facing a two-faced trend: private law seems to accept instances that are more sensitive to a social dimension, while labour law, on the other hand, is contaminated by the greater importance given to typical market liberties. In the long term this could mean that private law and labour law are no longer two separate and distant universes that do not communicate with each other, but rather universes that tend to approach each other and in some fields, to be influenced by similar logics. The second observation is directly connected with the traditional objective of labour law, whose main purposes are curtailing the powers of the entrepreneur and reducing the subordination status of the worker. The latter is a correct [continua ..]
Addressing this issue also means asking oneself the question of the relationship between labour law and economic science. I belong to the school of Gino Giugni, in which it was completely normal to open up to other disciplines, such as economics, sociology or industrial relations. Asking oneself what are the economic consequences of labour law policies is not tantamount to accepting the economic point of view as the only point of view (as opposed to labour law being the sole realm of values). The idea that labour law should completely disregard the economic consequences of its choices is a widespread opinion. Many think – in Italy or in Spain, for example – that the value of efficiency should not be included among the values that make up the framework labour law is inspired by. In my opinion I think that this opinion is unacceptable. First of all because it is well known how labour law can explain economic effects. Secondly, because knowing the economic effects that can derive from certain labour policies can contribute to an improvement in public policies. For example, being aware of the economic effects that anti-discrimination policies can have does not necessarily mean renouncing or limiting such policies because they are costly, not profitable or inefficient [52].You can decide to maintain the same standards of protection even if they result in negative economic effects, given the importance that these policies take and the values they protect. But being aware of the economic repercussions of a measure can be useful to choose between different implementation tools that can cause less or more disadvantages from an economic point of view. From this point of view, scholars have a great responsibility In Italy, in Spain and, to a lesser extent, in France, the attitude towards economy is one of strong closure if not of outright rejection and hostility, while an opposite attitude, pragmatic and not rooted in ideology, open to integration of the two fields, would be more useful and desirable. Of course it is undeniable that this task is absolutely not a simple one. The conflict between market values and personal values is a conflict that has always been part of labour law and will always be part of it. Just think of a fairly recent case decided by the Court of Justice of the European Union, on the right of a female worker to wear the Islamic headscarf while working [53]. The worker defended her right to religious freedom; [continua ..]
I think we should spend a few words on collective bargaining. Historically collective bargaining has taken on an anti-competitive role in trying to preserve the labour contract and the worker from the pure logic of exchange that governs the market by preventing workers from “lowballing” (i.e. competing by accepting lower wages and worse working conditions) but it has also prevented companies from competing between them by gradually reducing labour costs Globalisation and the effects of the de-localisation and de-nationalisation of economies have introduced many crisis factors in the traditional model. Moreover, we have told several times, the market has now become fragmented: inside the market innovative and technologically advanced companies with radically new processing systems exist next to large sectors characterized by illegal work or irregular and poorly paid jobs. The same fragmentation can be observed between the trade unions of workers and, above all, employers: a fact which too led to a consequent fragmentation of the trade union representation power. The huge number of collective agreements in Italy makes this phenomenon evident. In order to prevent the trade unions to lose their role once and for all, it is necessary to rethink their function deeply and move towards an orderly system of representation that rules by law both the collective agreement and its effectiveness towards the workers concerned.
The typical feature of labour law, at least in Italy, but also in some European countries, for example Spain or France, is the use of binding and mandatory rules and regulations. The use of mandatory and binding rules was functional to a season of labour law in which the rights of workers had to be reinforced. But it was also the expression of legislation focused on the individual employee, on an individualistic perspective and on a latent conflict. The mandatory and binding rules were functional to a view of labour law marred by conflict in which the rights of the individuals were reasserted on themselves in an intangible way even by the trade unions themselves. In a situation in which a continuous adaptation of labour law to a rapidly evolving reality is required, the rigidity of the mandatory laws as the only protection technique must be reviewed. And this review can take place on two levels. The first concerns the formation of the rule itself, the source of which is no longer the law, but the collective bargaining that is authorized to create the rule itself or to modify the rule imposed by the mandatory regulations, which therefore become “half mandatory”. This is the path followed, for example, in Italy, but for it to be effective it is necessary to act within a very clear legal framework, in which there is a clear criterion for identifying trade union organizations and a legislative framework that focuses on the effectiveness of the collective agreement. Both conditions are lacking in the Italian context, unlike in other European countries, with the consequence that there are sometimes serious uncertainties about the application of the collective agreement. The second concerns the application of the rule. The rule needs to be adapted to the changing reality. It has been proposed to use the principle of proportionality as a general category of control, e.g. of the acts of the entrepreneur or of the power of dismissing employees. Or, as Davidov proposed, to use a model of principle-based legislation [59]. In France and Spain there have been attempts to use the general clauses, but they have not been very successful. In Germany the tradition of using the criteria of Treu und Glauben dates back to a long time ago, and the results have not always been particularly positive, like the cases (especially those of the Interwar and early post-WWII period). In Italy the debate on the opportunity to use a model of [continua ..]