La legge 29 ottobre 2016, n. 199 ha modificato le norme a tutela dei lavoratori dallo sfruttamento e dall’intermediazione illegale. La riforma, introducendo una nuova fattispecie di reato, non ha tenuto conto di già vigenti norme del codice penale e della loro consolidata applicazione giurisprudenziale. In tal modo il legislatore, nel quadro dei già difficili rapporti tra potere punitivo dello Stato e criminalità economica, ha creato problemi interpretativi, dai quali possono paradossalmente derivare benefici per i responsabili dello sfruttamento di lavoratori italiani e stranieri.
The law 29 october 2016 n. 199 amended the rules to protect workers from exploitation and illegal intermediation. The reform, introducing a new criminal offense, does not take into account already existing rules of the Criminal Code and their consolidated jurisprudential application. Thereby legislatore – under the already difficult relations beetween punitive power of the State and economic crime – has created problems of interpretation, from which they can paradoxically derive benefits for the leaders of the exploitation of italian and foreign workers.
1. La legge sul lavoro sommerso e sullo sfruttamento delle persone in stato di bisogno - 2. Il reato di riduzione e mantenimento in servitù - 3. L'art. 600 del codice penale e l'interpretazione giurisprudenziale del delitto di lavoro servile a evento plurimo - 3.1. Il rapporto di forze tra le parti - 4. Casistica della lesione della libertà individuale e del patrimonio dei lavoratori in condizione servile - 5. Le nuove norme, lo scoordinamento con il sistema penale vigente, il paradossale effetto di clemenza - 6. Lo stato di soggezione continuativa come elemento basilare per la reale vigenza del delitto di lavoro servile ex art. 600 c.p. - 7. L'oscura strategia dell'intervento punitivo dello Stato nel campo economico - NOTE
Il Governo, in difesa dei lavoratori impegnati in attività particolarmente disagiate, sin dal 28 gennaio dello scorso anno, ha presentato il disegno di legge S2217, approvato dal Senato il primo agosto successivo; la Camera, il 18 ottobre, all’esito di un rapido esame, ha concluso l’iter parlamentare. La legge 29 ottobre 2016, n. 199, recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura”, è stata pubblicata nella G.U. del 3 novembre 2016, n. 257. Al di là di aspetti positivi che, almeno sulla carta, possono intravedersi nel campo del diritto civile e del diritto amministrativo, le nuove norme presentano aspetti meritevoli di attenta riflessione sul piano della prevenzione e della repressione penale dello sfruttamento della parte debole del rapporto di lavoro. Va innanzitutto rilevato che all’inizio e nel corso dei lavori parlamentari è stata suggerita ai cittadini, con l’appoggio di stampa e televisione, la convinzione dell’esistenza di un vuoto normativo nel sistema penale, quale prima causa dell’espansione del lavoro illegale e disumano svoltosi con la massima trasparenza nelle campagne di tutta l’Italia. Da tale omissione del potere legislativo sarebbe derivata la libertà dei proprietari terrieri e degli imprenditori di sfruttare, di schiavizzare, di umiliare, grazie all’illegale intermediazione dei caporali, cittadini italiani e stranieri in stato di bisogno. Infatti Donatella Ferranti, Presidente della Commissione giustizia della Camera, e Giuseppe Berretta, Relatore nella medesima Commissione, concordano con una indeterminata dottrina sull’esigenza di porre rimedio all’inettitudine operativa dell’art. 603-bis c.p. per realizzare l’obiettivo del coinvolgimento concorsuale del datore di lavoro nel delitto di intermediazione illecita e di sfruttamento; concordano, quindi, sulla necessità di riscrivere la norma per estendere la punibilità al primario protagonista del fenomeno del lavoro nero [1]. Un’anomalia è sicuramente ravvisabile in questa ansia riformatrice: infatti, la finalità di riempire una lacuna normativa dando rilevanza penale al comportamento del soggetto che trae il massimo profitto dallo sfruttamento del lavoratore in posizione di particolare disagio mal si concilia con la severa [continua ..]
L’art. 1 della legge 11 agosto 2003, n. 228, modificata dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, nel dare interpretazione autentica alla citata dizione di “condizione analoga alla schiavitù”,scandisce con maggiore chiarezza la duplice ipotesi criminosa che può prendere corpo in molteplici rapporti interpersonali, tra cui quelli intercorsi in campo lavorativo. In particolare, la prima consiste nella riduzione e del mantenimento in schiavitù, fattispecie nella quale il soggetto attivo “esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà” che, implicando la reificazione della vittima (lo schiavo) ne comportano ex se la privazione della libertà e la vantaggiosa utilizzazione delle prestazioni lavorative senza possibilità di resistenza, mentre la seconda riguarda la riduzione e il mantenimento in servitù, ove il soggetto attivo pone in essere la condotta di approfittamento, tra l’altro, di una situazione di necessità, di vulnerabilità e «riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite, che ne comportino lo sfruttamento …» [4]. Inoltre, il secondo comma dello stesso articolo precisa che «La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona». Infine, la Direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo, all’art. 2, par. 2, ha definito la posizione di vulnerabilità come «una situazione in cui la persona … non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima». Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è a fattispecie plurima [5] e, in entrambe le fattispecie, il colpevole è punito con la reclusione da 8 a 20 anni, ed è prevista la competenza della Corte d’Assise. L’art. [continua ..]
Da tempo, nella Repubblica italiana fondata sul lavoro, chi trae iniquo profitto dallo stato di bisogno della parte debole e dalla generale sua impossibilità di determinarsi liberamente nello scambio prestazioni-retribuzione è sottoposto alla grave sanzione penale della reclusione, prevista dall’art. 600 del codice penale dedicato alla riduzione o mantenimento in servitù [9]. La Suprema Corte, con la mirabile sentenza n. 2841/2006, ha illustrato con estrema efficacia gli elementi costitutivi «del più importante delitto a tutela della personalità individuale, che, rendendolo conforme alle indicazioni internazionali e rispettoso del principio costituzionale di tipicità penale, sembra destinata ad attribuirgli un ruolo più incisivo di quello poco più che simbolico ricoperto nel passato, al fine della protezione effettiva della dignità della persona …» [10]. La decisione osserva: «Il legislatore, nell’evidente intento di conferire determinatezza alla fattispecie abrogata, ha definito la nozione di “schiavitù” e ha introdotto la nozione di “servitù” in sostituzione della precedente “condizione analoga alla schiavitù”, in tal modo configurando un delitto a fattispecie plurima, che è integrato alternativamente: a) dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario: è questo un reato di mera condotta, parametrato sulla nozione di schiavitù prevista dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 25 ottobre 1926, ratificata con r.d. 26 aprile 1928, n. 1723, secondo il quale “la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sui quali si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi”; b) dalla condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative (es, servitù per debiti) o a prestazioni sessuali, o all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (es. servitù della gleba): si tratta in questo caso di un reato di evento a forma vincolata, in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni (si tratta quindi, più esattamente, di un duplice evento, che [continua ..]
La suindicata situazione di debolezza, che coincide con la posizione di vulnerabilità, interessa una schiera di lavoratori in continua espansione, a causa delle ondate migratorie in corso da anni nel nostro Paese, rendendo quindi in ininterrotto aumento il fenomeno di rapporti e contratti caratterizzati dall’illegittimo profitto della parte più forte e dall’illegittimo sfruttamento della parte più debole. Quest’ultima, se presente nel nostro territorio in modo illegale, si trova nella situazione «in cui la persona … non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima» [13]. Questa crescente massa di esseri umani sottoposti al lavoro forzato è costellato più che mai di vittime prive di strumenti giuridici idonei a porre fine allo sfruttamento e ad ottenere punizione e risarcimento in danno del responsabile. Il permesso di soggiorno temporaneo può essere rilasciato dal questore se in sede giudiziaria sia accertato un grave sfruttamento di un lavoratore straniero. Infatti, l’art. 18, comma 3-bis, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (c.d. Testo Unico dell’immigrazione), dispone la sua concessione per motivi di protezione sociale a favore di stranieri vittime di sfruttamento, anche sul lavoro. L’incentivo alla collaborazione di questa norma è però azzerato da altra disposizione contenuta nel medesimo testo normativo, la quale ha un effetto del tutto contrario; si tratta dell’art. 10-bis, inserito nel d.lgs. n. 286/1998 dalla legge n. 94/2009, che punisce il fatto stesso dell’immigrazione clandestina come contravvenzione non oblabile ex art. 162 c.p., ma sostituibile con la sanzione dell’espulsione immediata ex art. 16 del medesimo T.U. Pertanto, in dottrina [14] è stata suggerita l’immediata introduzione di una norma di collegamento tra le due disposizioni, che preveda una specifica causa di non punibilità a favore dello straniero clandestino vittima di reati di sfruttamento. Tale causa di non punibilità «renderebbe certamente più facile l’accertamento probatorio dei reati di sfruttamento del lavoro, così come lo renderà sicuramente più facile l’abrogazione del reato ex art. 10-bis, o meglio la sua trasformazione in illecito amministrativo, conseguenza questa [continua ..]
In applicazione del suddetto principio ermeneutico, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha confermato l’affermazione di responsabilità, in ordine al plurioffensivo reato di cui all’art. 600 c.p., nei confronti di imputati che in Puglia avevano ridotto in soggezione persone provenienti da Paesi dell’Est, “privandole dei passaporti, collocandoli in luoghi isolati privi di relazioni esterne, corrispondendo retribuzioni nettamente inferiori alle promesse e imponendo loro contestuali sacrifici di esigenze primarie, alloggi fatiscenti, assenza di servizi igienici, privazioni alimentari, impossibilità di spostarsi sul territorio essendovi veicoli preordinati solo a condurli nei campi e, quindi, rendendoli incapaci di sottrarsi allo sfruttamento, corredato se del caso da violenze e minacce” [21]. Ancora, la Puglia e la sua economia agraria avevano avuto, alcuni anni prima, come protagoniste, donne extracomunitarie offese nella loro libertà e personalità individuale nonché nel loro patrimonio, in quanto rinchiuse a chiave in un casolare, prelevate in via esclusiva per essere portate nei campi agricoli, e private di gran parte degli emolumenti giornalieri [22]. La descrizione di queste condizioni di lavoro mostra come da molti decenni la situazione di civiltà della nostra Repubblica sia stabilmente retrocessa a livelli di inciviltà rifiutati da secoli in altri Paesi dell’Europa occidentale [23]. Ai fini della configurabilità dell’evento del delitto di riduzione e mantenimento in servitù non è necessaria un’integrale negazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione rilevante ai fini dell’integrazione della norma incriminatrice. Sul punto, secondo la giurisprudenza consolidata, deve ritenersi che non è richiesto uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta negoziale, essendo sufficiente un impellente assillo, come situazione di forte difficoltà che, limitando la volontà del soggetto passivo, lo induca a sottostare alle condizioni imposte dall’agente [24]. Pertanto, lo stato di soggezione continuativa richiesto dall’art. [continua ..]
Quanto alle modifiche alla normativa penale dello sfruttamento del lavoro introdotte con la legge n. 199/2016, vanno rilevate alcune considerazioni. In primo luogo, il titolo del disegno di legge delimita la materia oggetto della nuova disciplina al lavoro irregolare svolto in agricoltura, ma il testo dell’art. 1 riguarda il reclutamento e lo sfruttamento di lavoratori di qualsiasi settore dell’economia. In secondo luogo, dalla trascrizione dei lavori parlamentari svolti in Senato risulta che, nella relazione introduttiva, i ministri proponenti hanno posto come finalità della riforma la garanzia di una complessiva e maggiore efficacia dell’azione di contrasto della criminalità nel settore agricolo, «partendo dall’attenzione al versante dell’illecita accumulazione di ricchezza da parte di chi sfrutta i lavoratori all’evidente fine di profitto, in violazione delle più elementari norme poste a presidio della sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché dei diritti fondamentali della persona» [27]. Questo naturale obiettivo viene però contraddetto e ristretto, almeno inizialmente, laddove, nei medesimi brani, il fenomeno da combattere contro lo sfruttamento e contro l’illecito profitto è limitato al c.d. caporalato, già previsto e punito dall’art. 603-bis c.p. In terzo luogo, è evidente l’esclusione, da parte del Governo, di qualsiasi attenzione e di qualsiasi consapevolezza per il delitto di riduzione e mantenimento in servitù previsto dall’art. 600 c.p. per il principale protagonista dello sfruttamento e dell’accumulazione di illecito profitto. Tale esclusione viene confermata dal testo del disegno di legge nella parte relativa all’“Analisi del quadro normativo nazionale” in materia di sfruttamento del lavoro [28], in cui è indicata l’assenza di intento abrogativo solo degli artt. 601, 603-bis, e 603-terc.p. che non riguardano i principali utenti e beneficiari del lavoro nero. Identico silenzio caratterizza il brano che si sofferma sulla esclusione di un potenziale contrasto delle nuove norme con le linee prevalenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, essendo citata solo la sentenza n. 14591/2014 avente ad oggetto il reato di cui all’art. 603-bis c.p. [29]. Inoltre, è esclusa la “Individuazione di effetti abrogativi [continua ..]
L’accertamento dell’evento dello stato di soggezione continuativa in cui il dipendente svolge la sua attività lavorativa diventa quindi fondamentale per distinguere le due ipotesi di reato. Detto elemento deve essere caratterizzato da una durata particolarmente reiterata e prolungata nel tempo, nel senso di essere conseguenza di programmata scelta dell’imprenditore, o quanto meno di una non contingente decisione di ridurre i costi dei fattori di produzione incentrata sull’abbassamento della retribuzione e sulla limitazione della sicurezza dei dipendenti. Secondo un orientamento interpretativo, formatosi in altre ipotesi di mantenimento e riduzione in servitù, deve escludersi dal paradigma normativo di cui all’art. 600 c. p. «una contingente condotta del datore di lavoro che, esaurendosi in un breve arco di tempo, non acquisisca l’idoneità a determinare lo stato di dipendenza psicologica della vittima e la rinuncia prolungata alle proprie fondamentali prerogative in materia di libertà» [38]. Pertanto, l’assoggettamento e la finalità di sfruttamento devono aver modo di manifestarsi in maniera tale da dimostrare che la vittima non è stata privata in via eccezionale e occasionale della libertà di autodeterminazione, nonché del diritto di ricevere una retribuzione proporzionata ed adeguata alla quantità e quantità delle sue prestazioni. Lo stato di soggezione continuativa deve essere rapportato all’estensione temporale e all’intensità del vulnus arrecato all’altrui libertà di autodeterminazione, nel senso che esso non può essere escluso qualora si verifichi una soggezione della vittima, che, sebbene limitata, non intacchi la posizione di supremazia del soggetto attivo del reato [39]. In tal senso, va riconosciuta la sussistenza dell’evento laddove la tutela dal programmato sfruttamento, fondato su compensi inadeguati e su pericolose condizioni ambientali, abbia come unico strumento l’esercizio della “libertà” di recidere il rapporto. È indubbia l’inalterata esistenza della soggezione continuativa di chi (cittadino, residente, immigrato clandestino) “non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima” [40]. Ad oggi è inconcepibile che, in ossequio al [continua ..]
Le innovazioni normative e i problemi applicativi sin qui esaminati sono da inquadrare nel tipo di strategia che lo Stato intende seguire nel campo della criminalità economica. È ben accettabile un ridimensionamento della repressione penale anche nei confronti del disumano fenomeno dello sfruttamento delle persone in condizione analoga alla schiavitù. È particolarmente discutibile il metodo impiegato dal Governo e dalla maggioranza parlamentare di ridisegnare fattispecie e sanzioni al di fuori di una razionale e trasparente strategia di politica del diritto, che non sia quella di favorire a tutti i costi l’incremento della produzione e dei conseguenti profitti. Sotto il profilo di questa oscura e silente politica criminale, va dato il giusto rilievo alla cultura giuridica fautrice del carattere obsoleto dell’ideologia della repressione penale nel campo economico che, animata da sano realismo, sostiene l’estraneità del diritto penale dinanzi alle oggettive condizioni del mercato del lavoro e alla naturale supremazia della parte imprenditoriale rispetto ai titolari della forza lavoro. “Il mero sfruttamento non ha rilevanza penale, salva l’applicazione di fattispecie comuni (estorsione, violenza privata, ecc.): ma può essere schierato il diritto penale contro la distribuzione dei rapporti di forza nel rapporto di lavoro?” [45] La risposta all’interrogativo è decisamente negativa sulla base della riconosciuta vigenza di una costituzione di fatto che ormai disciplina il mondo della produzione e il mercato del lavoro. Si deve prendere atto che ci si trova non dinanzi a poche “mele marce”, ma ad un vero e proprio modo di produzione con cui si deve dialogare pacificamente, disarmati di intento punitivo. “Ascrivere alla norma penale un simile potere performativo della realtà (in positivo o in negativo, non importa) è soltanto espressione di una velleitaria quanto diffusa tendenza a sopravvalutare il diritto penale quale arnese di governo – qui come in altri rami – di un intero sistema produttivo. E ancora peggio, se il diritto penale serve, dietro la facciata, non già ad affrontare, ma a rimuovere la realtà delle cose, etichettando come criminale il funzionamento di un sistema autoprodottosi anche per via dell’assenza radicale (almeno sino ad oggi) di politiche economiche e sociali che [continua ..]