L’autore esamina gli effetti della sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale sui giudizi pendenti, sostenendo, in particolare, che le allegazioni e le richieste istruttorie possono essere modificate, e in che termini.
The author examines the effects on cases pending of Constitutional Court decision No 194/2018, especially highlighting that the claims and the warrants of evidence may be modified, and in what terms.
Articoli Correlati: sentenza - n. 194/2018 - giudizi pendenti - allegazioni e prove
1. Considerazioni di premessa - 2. Ambito d'applicazione della sentenza d’incostituzionalità - 3. Nuove allegazioni e nuove prove nei vari gradi di giudizio - 4. Oggetto delle nuove allegazioni e delle nuove prove - 4.1. Responsabilità contrattuale e oneri di allegazione e probatori - NOTE
A) Punto di partenza delle considerazioni che farò è la qualificazione dell’indennità prevista dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 come risarcimento del danno. Non perché ne sia convinto – molti sono anzi gli argomenti per sostenere altro (al riguardo la dottrina è divisa[1]) – ma perché è il presupposto logico su cui poggia il deciso di Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194[2] che si sostanzia in pronuncia d’incostituzionalità parziale testuale (si è eliminato un pezzo di testo della disposizione) [3] e del quale deve prendersi atto. Tale presupposto è espressamente enunciato al punto 10 della sentenza sul rilievo dell’essere, il licenziamento illegittimo (per quel che qui interessa, relativo a contratto c.d. a tutele crescenti), un illecito derivante da violazione di norme imperative (gli artt. 2119 c.c. e 1 della legge n. 604/1966: su ciò v. postea). Nel corpo della sentenza (punto 12.2) vi è anche il riferimento alla non dissuasività di un’indennità determinata in ragione della sola anzianità di servizio, ma questo non per aggiungere alla indennità una funzione [4], ma per denunciare la sua inadeguatezza rispetto alla funzione risarcitoria (specie quando il licenziamento interviene nei primi anni di servizio [5]) all’interno della quale la pronuncia quindi si muove, come è ancora sottolineato al punto 14 quando si richiama la Carta sociale europea, la Convenzione Oil n. 158 del 1982 e il Comitato europeo dei diritti sociali. E la sentenza si muove sempre nella logica risarcitoria quando giustifica la forfettizzazione dell’importo nel basso e nell’alto spiegando come l’ordinamento possa derogare al principio della completa ristorabilità del pregiudizio purché ne sia garantita l’adeguatezza (punto 12.1). Soprattutto, la pronuncia fonda la sua conclusione d’incostituzionalità sulla mancata personalizzazione del danno che comporta il criterio di calcolo previsto dalla legge denunciata [6] e che si traduce in un’indebita assimilazione di situazioni differenti e non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco nel tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria consistente nella compensazione adeguata del pregiudizio subito (punto 12.3) [7]. B) Altra [continua ..]
Questo sul piano processuale pone delicati problemi, da varie angolazioni, a cominciare dalle ipotesi in cui gli effetti della sentenza vadano applicati. In proposito, alla luce di quanto si diceva in precedenza sui rapporti esauriti, allorché vi sia stata statuizione di rigetto della domanda o l’indennità sia stata giudizialmente liquidata con il criterio dell’anzianità e non vi sia stata impugnazione della sentenza la questione è chiusa e la decisione 194 sarà inapplicabile. E lo stesso è ove, ad es., sia intervenuta decadenza per violazione dei termini dell’art. 32, legge n. 183/2010 e successiva modifica, o sia intervenuta transazione [13]. Invece, nel caso in cui vi sia stata tempestiva impugnazione del datore di lavoro e sia stato proposto appello incidentale del lavoratore, anche tardivo [14], inerente la quantificazione pur se proposto per motivo differente (ad es., la mancata inclusione di una voce retributiva) dal criterio di calcolo sulla base dell’anzianità, la nuova regola andrà a mio avviso applicata, posto che il principio jura novit curia fa sì che il giudice possa di sua iniziativa esaminare la questione purché il capo della decisione sia stato investito dall’impugnazione anche se per diverso profilo [15]. Questo vale a fortiori per il caso di tempestivo appello principale che sia stato proposto dal lavoratore, e anche per la reiezione della domanda. In argomento vale la pena richiamare quanto affermato con riguardo alla modifica delle conseguenze economiche derivati dalla nullità dell’apposizione del termine ex lege n. 183/2010, in cui si è appunto detto che persino nel giudizio di legittimità il ius superveniens, che introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare applicazione alla condizione, necessaria, che la normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – richiedono che il motivo del ricorso, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre che sussistente sia ammissibile secondo la [continua ..]
Le considerazioni che precedono pongono però a loro volta una serie di ulteriori problemi per i vari gradi in cui il procedimento si trovi. A) Quanto al rispetto del principio della domanda e del diritto alla prova, laddove la causa si trovi in primo grado, la soluzione è abbastanza semplice, soccorrendovi la parte finale del comma 1 dell’art. 420 c.p.c. per il quale “le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice”; modifiche che, alla stregua di recente pronuncia delle sezioni unite[17], resa però sub specie dell’art. 183 c.p.c., eccedono perfino la semplice emendatio. Personalmente penso che nel caso di mutamento della legge – v. ancora l’ipotesi suddetta dell’intervento della legge n. 183/2010 – non sia neppure necessaria l’autorizzazione del giudice che deve solo valutare se la modifica normativa sia pertinente ed immediatamente applicabile alla fattispecie, mentre ciò non è nel caso d’intervento di pronuncia abrogativa della corte costituzionale stante la nota, consolidata giurisprudenza di legittimità sul mero impedimento di fatto rappresentato da una legge (poi) dichiarata incostituzionale, che, come tale, non impedisce il decorrere della prescrizione[18]. Un intervento siffatto, però, certamente costituisce a mio avviso grave motivo sul quale il giudice esprime una valutazione che è sì espressione di ampi poteri come è per la valutazione sulle clausole e sulle norme generali ma che è cosa diversa dalla valutazione discrezionale [19]. Alla stregua della suddetta giurisprudenza potrebbe però dirsi che le parti avrebbero potuto “proporre prima” i mezzi di prova, e ancor prima le necessarie allegazioni, sui nuovi elementi della fattispecie scaturiti dalla sentenza n. 194, ciò impedendo, stando allo stretto testo dell’art. 420, comma 5, l’introduzione di tali elementi e l’ammissione appunto di nuove prove sugli stessi. È però un rilievo, che vanificherebbe di fatto la possibilità di modifica della domanda, non convincente non solo per il formalismo della lettura ma anche perché il fondamento alla base della pronuncia della corte (la natura risarcitoria dell’indennità) poteva non essere [continua ..]
Si accennava alle allegazioni e alle prove, che dovranno tener conto della natura risarcitoria dell’indennità in questione, della quale, si è detto, qui si deve prendere atto. Fermi gli oneri probatori in capo al datore di lavoro sulla esistenza della causale, incomberà allora al lavoratore allegare e provare l’esistenza di un danno superiore al minimo di legge delle quattro – ora sei – mensilità di retribuzione, e al datore di lavoro allegare e provare un danno inferiore alle ventiquattro mensilità (ora trentasei) come potrebbe essere nel caso in cui l’anzianità di servizio sia molto alta. Qui però si aprono due strade. Se si ritiene i criteri che la corte costituzionale ha indicato nella parte finale della sua motivazione siano vincolanti [25], allegazioni e prove dovranno avere ad oggetto le (sole) circostanze in esse previsti. Se, come credo, non lo siano – i criteri sono infatti estranei al dispositivo abrogante e non costituiscono presupposti indispensabili dello stesso né, stante appunto, l’illegittimità parziale testuale e il non avere la corte scelto la via della pronuncia additiva [26] (o sostitutiva) [27], possono valere in tal senso per la integrazione della motivazione con il dispositivo – andranno allegate e provate tutte le circostanze atte a dimostrare l’esistenza di un danno, incombendo al datore di lavoro, fermo il minimo, di allegare e provare il contrario nonché l’aliunde percipiendum (v. infra). Si rendono, a questo punto, necessarie alcune puntualizzazioni. Innanzitutto, l’ho accennato, non ritengo che a fronte di una declaratoria d’illegittimità parziale testuale possa integrarsi il dispositivo con la motivazione, come è in generale per le sentenze di cui non è data immediata lettura. Non ritengo, infatti, che ad una forzatura quale già è la sentenza additiva o sostitutiva cui non è cenno né nell’art. 136 Cost., né nella legge cost. n. 87/1953, possa aggiungersi l’ulteriore forzatura di andare oltre un dictum dalla rilevanza enorme data dall’incidere su di un atto del potere legislativo e cioè su di una legge. Un conto è dire, come fatto in precedenza (al § 1), che si debba prendere atto del presupposto [continua ..]
Sempre in tema di allegazioni e prove, valgono le regole proprie del risarcimento del danno. In particolare, il richiamo all’illecito fatto nella sentenza e prima messo in luce al paragrafo 1 di questo scritto, non specifica se si tratti di illecito aquiliano o contrattuale, come ritengo alla stregua del rilievo, presente nella sentenza stessa, che il licenziamento, pur efficace, ha violato la regola inderogabile del rapporto per la quale al licenziamento può procedersi in caso di giusta causa o giustificato motivo. In tale direzione è orientata la corte di cassazione in materia di prescrizione, che per questo afferma che il diritto del lavoratore al risarcimento del danno resta assoggettato all’ordinaria prescrizione decennale anziché a quella quinquennale [32].