A partire dalla constatazione che per lungo tempo il bisogno da povertà non ha trovato tutela nell’ordinamento italiano, l’A. si sofferma sulla obsolescenza dell’art. 38 Cost. e sulla possibilità di fornirne una lettura “aperta”, che consenta di collegarlo ad altri principi costituzionali e di affrancare il diritto all’assistenza dall’interpretazione letterale del dettato costituzionale. La seconda parte del saggio è dedicata ai connotati delle nuove prestazioni economiche assistenziali, a partire dal neonato Reddito di Cittadinanza (RdC). L’A. prova a verificare se e quanto i nuovi sussidi soddisfino i requisiti del modello ideal-tipico di strategia di inclusione attiva raccomandato dalle fonti europee e internazionali. Nel concludere che l’Italia rimane piuttosto lontana da quel modello, a causa di un eccesso della componente vincolistico/punitiva della disciplina dei nuovi sussidi assistenziali, l’A. individua i principali profili critici della recente normativa sul RdC.
Taking the assumption that for a long time the poverty did not find protection in the Italian legal system, the A. focuses on the obsolescence of the article 38 of the Constitution and on the possibility of an its “open” reading, in order to link it to other constitutional principles. This reading unhooks the right to assistance from the literal interpretation of this article. The second part of essay is dedicated to the features of the recent minimum income schemes regulated in Italy, starting from the new Reddito di Cittadinanza (RdC). The A. tries to verify if and to what extent the new subsidies meet the requirements of the ideal model of the active inclusion recommended by the European and international sources. The conclusion is that Italy remains far from that model due to an excess of the binding/punitive component present in the discipline of the new minimum income schemes. Therefore the A. focuses on the main critical profiles of the recent legislation on the RdC.
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1. Le nuove declinazioni dell'assistenza: dall’assistenza agli inabili all'assistenza ai poveri. Letture e (possibili) riscritture dell’art. 38 Cost. - 2. Il 'welfare assistenziale': dalla frammentazione ai livelli essenziali di assistenza sociale (LIVEAS). Delimitazione dell'ambito di analisi - 3. Per un modello ideal-tipico di strategia di inclusione attiva: il presupposto europeo a il pressappoco italiano - 4. Reddito di inclusione (ReI) e Reddito di cittadinanza (RdC): dal soccorso contro la povertà al percorso verso il lavoro - 4.1. Condizionalità e attivazione nel RdC: percorsi personalizzati, patto per il lavoro e patto per l'inclusione sociale - 5. I connotati delle prestazioni economiche assistenziali: nuovi bisogni, nuovi principi, nuova condizionalità - 6. Epicentri critici della disciplina del RdC: congruità dell'offerta e sistema sanzionatorio - 7. Il RdC: fra (vecchi) rischi di assistenzialismo e (nuove) scommesse sociali. Dalla solidarietà agli spazi delle capabilities - NOTE
La povertà non è un tema del quale gli studiosi di diritto del lavoro si occupano frequentemente, si sarebbe detto qualche anno fa, riprendendo uno scritto sul problema della povertà nel diritto amministrativo [1]. Non tanto perché, nell’ordinamento nazionale, non esisteva, sino al 2017, una definizione giuridica di povertà, né un legame esplicito tra povertà, bisogno e assistenza [2]. Quanto perché nella tradizionale novecentesca visione del lavoro, quest’ultimo non incrociava la povertà, rappresentandone anzi l’antitesi [3], almeno sino a quando lo stesso lavoro non è diventato “povero” [4], perché “scarso” e/o, nel caso del lavoro subordinato, frammentato e precario e, pertanto, non sempre produttivo di un reddito sufficiente a condurre un livello di vita dignitoso. Sul piano ordinamentale, il legame fra assistenza e povertà è, dunque, un legame relativamente nuovo, che la nostra Costituzione aveva accantonato [5], almeno nelle sue enunciazioni formali e, segnatamente, nell’art. 38, per il quale l’assistenza avrebbe dovuto riguardare il solo cittadino «inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere» (comma 1), mentre alla previdenza veniva assegnato il compito di raccogliere l’istanza del bisogno collegato all’assenza di lavoro in presenza di rischi/eventi tipici (comma 2: infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria) [6]. Coerentemente, nei decenni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, nel pieno del “trentennio glorioso” del welfare, il legislatore si era limitato a prevedere, quali principali sussidi assistenziali, gli assegni mensili di assistenza a favore degli invalidi civili [7] e le pensioni sociali riservate agli ultrasessantacinquenni in disagiate condizioni economiche [8] (denominate assegni sociali a decorrere dalla riforma pensionistica del 1995: l. n. 335/1995). Mentre nei decenni successivi, caratterizzati da un processo di riduzione dei costi dello stato sociale innescato anche dall’ondata neoliberista propagatasi in Europa a partire dagli anni ottanta del secolo scorso [9], rischi e bisogni [10] collegati alla povertà sono stati ulteriormente trascurati. Di certo, la vocazione selettiva [continua ..]
Lungi dal voler spingersi oltre tali brevi considerazioni introduttive, l’idea di questo contributo è di proporre alcune riflessioni sulla nuova idea di assistenza e i suoi nessi con le politiche attive del lavoro (da qui in poi: PAL). Anche in questi termini, la delimitazione dell’ambito di analisi appare, tuttavia, insoddisfacente ed impone un chiarimento necessario a circoscriverne meglio l’oggetto. Il focus dell’analisi sarà posto sulle prestazioni assistenziali di tipo economico, non anche sui servizi alla persona, generalmente noti come “servizi-socio-assistenziali”. Vale la pena di rammentare, infatti, che – nell’accezione fatta propria dall’ordinamento nazionale a partire dalla “legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” (legge n. 328/2000) – le prestazioni assistenziali (che quella legge definisce anche sociali) si articolano in beni e prestazioni di tipo economico, queste ultime «destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia» [35]. Tralasciando, dunque, ogni questione relativa alla organizzazione degli interventi e dei servizi alla persona, ci si concentrerà sui sussidi e, in particolare, sulle prestazioni economiche di contrasto alla povertà inaugurate, a livello nazionale, dalla sperimentazione del “Reddito minimo di inserimento” (Rmi) e culminate, nelle due ultime legislature, nella introduzione del “Reddito di inclusione” (ReI; legge n. 33/2017 e d.lgs. n. 147/2017) e del “Reddito di cittadinanza” (RdC; d.l. 28 marzo 2019, n. 4, conv. in legge 28 marzo 2019, n. 26). Lo spazio e gli obiettivi di queste brevi riflessioni non consentirebbero, del resto, un’analisi a tutto tondo delle caratteristiche del nuovo “welfare assistenziale”, che imporrebbe di affrontare ab imis le questioni connesse alla incertezza definitoria della materia e dei suoi confini, non chiari e univoci neppure negli studi specifici sul tema [36]. Tanto più che, dal 2001, l’“assistenza sociale” è materia su cui insiste la competenza residuale delle Regioni (ex art. [continua ..]
Ristretto l’ambito, si può avanzare un’ipotesi. A partire dall’analisi normativa e dai connotati identificativi delle nuove prestazioni economiche assistenziali (il ReI e il RdC), si proverà a dimostrare che, a causa di diverse criticità riguardanti sia la disciplina dei nuovi sussidi, sia il grado di effettività (rectius: ineffettività) della normativa sui servizi (competenti sia a valutare i bisogni che ad “attivare” i soggetti: servizi socio-assistenziali e SPI), l’Italia rimane piuttosto lontana dal modello ideal-tipico di strategia di inclusione attiva ricavabile dalle fonti europee e internazionali [52]. Tale modello, come meglio si vedrà, è contraddistinto da una necessaria calibratura fra la componente vincolistico/punitiva (per i beneficiari dei sussidi) e quella dinamico/promozionale (riservata ai servizi) – ed è il solo a poter realizzare quel progetto di eguagliamento sostanziale inscritto nel comma 2 dell’art. 3 Cost., rendendo anche effettivo il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) nel caso in cui i bisogni dei beneficiari siano connessi alla (mancante o insufficiente) situazione lavorativa. Un utile e fecondo punto di riferimento per la identificazione del modello è dunque rappresentato dalle fonti europee. Se ne proporrà qui un’analisi sintetica, al fine di evidenziare epicentri critici e possibili sviluppi delle recenti discipline italiane del RM e, segnatamente, del nuovo RdC, allo scopo di valutarne la coerenza con il modello di strategia di inclusione attiva (active inclusion activation strategy) suggerita, da oltre un decennio, dalle istituzioni europee. L’assenza di fonti hard dell’Ue – dovuta al tipo di competenza europea, che, come si ricorderà, in materia di «lotta contro l’esclusione sociale» è di mero coordinamento[53] – non impedisce di tener conto di numerose indicazioni che la Commissione ha fornito agli Stati, soprattutto nella Comunicazione del 2010, contenente la Piattaforma europea contro la povertà e l’esclusione sociale, e nella Raccomandazione relativa all’inclusione attiva delle persone escluse dal mercato del lavoro (Racc. 867/2008/CE). Non trascurabile è, ovviamente, la previsione del “Reddito minimo” nella più recente Raccomandazione sul Pilastro europeo dei diritti sociali [continua ..]
Per confermare l’ipotesi, sarà bene partire da alcuni dati legislativi riguardanti sia il ReI che il RdC. «È istituito, a decorrere dal mese di aprile 2019, il Reddito di cittadinanza, di seguito denominato «Rdc», quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro. Il Rdc costituisce livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili» (art. 1, comma 1, legge n. 26/2019). «L’erogazione del beneficio è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (…) nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale» (art. 4, comma 1, legge n. 26/2019). Anche allo scopo di operare qualche raffronto, sarà utile richiamare le simmetriche disposizioni sul ReI. «1. A decorrere dal 1° gennaio 2018, è istituito il Reddito di inclusione, di seguito denominato «ReI», quale misura unica a livello nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. 2. Il ReI è una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà» (art. 2, d.lgs. n. 147/2017). «In esito alla valutazione multidimensionale, è definito un progetto personalizzato, sottoscritto dai componenti il nucleo familiare entro venti giorni lavorativi dalla data in cui è stata effettuata l’analisi preliminare» (art. 6, comma 1, d.lgs. n. 147/2017). «Laddove, in esito all’analisi preliminare, la situazione di povertà emerga come esclusivamente connessa alla sola dimensione della situazione lavorativa, il progetto personalizzato è sostituito dal patto di servizio, di cui all’articolo 20 del decreto legislativo n. 150 del 2015, ovvero dal programma di ricerca intensiva [continua ..]
L’art. 4 della legge n. 26/2109 contiene la disciplina della “attivazione” [64] dei beneficiari del sussidio, battezzata, nella vulgata del RdC, come “normativa anti-divano”. Per i componenti (maggiorenni) del nucleo familiare che beneficiano del RdC il primo momento della “attivazione” è rappresentato dalla “dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro” (DID) che dovrà essere resa tramite una delle piattaforme digitali previste dall’art. 6 e, in attesa della loro implementazione, con le modalità previste per l’acquisizione dello “stato di disoccupazione” dall’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 150/2015. La DID dovrà essere accompagnata dall’adesione ad un «percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale» (art. 4, commi 1 e 4) e seguita dal “patto per il lavoro”, che, per il comma 7 dell’art. 4, «equivale al patto di servizio personalizzato di cui all’articolo 20» del d.lgs. n. 150/2015. Mentre il “patto per il lavoro” verrà stipulato all’esito di una valutazione preliminare dalla quale emerga che «i bisogni del nucleo familiare e dei suoi componenti sono prevalentemente connessi alla situazione lavorativa» – rectius: alla carenza di lavoro (cosicché i servizi competenti alla stipula di quel patto sono i Cpi) – la stipulazione del “patto per l’inclusione sociale” è prevista «nel caso in cui il bisogno sia complesso e multidimensionale» tanto è vero che la sua stipula avverrà con il coinvolgimento dei servizi sociali e degli altri servizi territoriali competenti (art. 4, comma 12) [65]. Ma sulle differenze tra i due strumenti si tornerà tra breve. Per intanto, la nuova disciplina dell’attivazione sollecita due osservazioni. La prima è legata alla circostanza che – come anticipato – il primo momento della “attivazione” è costituito dalla DID (che dovrà essere resa entro 30 giorni dal riconoscimento del beneficio: art. 4, comma 4 e) che, sin dall’entrata in vigore del d.l. n. 181/2000, è una dichiarazione tipica del jobseeker (disoccupato o inoccupato in cerca di lavoro); la circostanza che tale dichiarazione sia ora [continua ..]
La breve analisi delle discipline contenuta nei paragrafi precedenti permette un tentativo di schematizzazione dei connotati delle nuove prestazioni economiche assistenziali. a) Il primo attiene alla dimensione funzionale dei nuovi sussidi ed è legato ai rischi e bisogni fronteggiati dalle più recenti misure. Diversamente che in passato, le prestazioni assistenziali di nuova generazione riparano gli individui (rectius: i nuclei familiari) da condizioni di povertà, disuguaglianza ed esclusione determinate da fattori di fragilità e vulnerabilità sociali (la crisi della famiglia, il “lavoro povero” e/o precario, la conciliazione tra lavoro retribuito e funzioni di cura, l’invecchiamento della popolazione) non coperti dal tradizionale welfare di stampo fordista. Fronteggiano, così, situazioni di bisogno di soggetti che, a prescindere da personali inabilità, non sono in grado di condurre un livello di vita dignitoso e reclamano il soddisfacimento del loro ius existentiae. b) Il secondo connotato riguarda i principi generali che sostengono i nuovi sussidi. Riprendendo i termini della questione relativa alle coordinate sistemiche del diritto alle prestazioni assistenziali e dei principi ordinamentali (costituzionali ed euro-unitari) che lo sorreggono, è indubbio che, nonostante la permanenza dell’art. 38 Cost., si sia ormai verificato uno spostamento del sistema verso schemi universalistici di sostegno al reddito[69] (benché il RdC, come il ReI, si basi su una logica di “universalismo selettivo” e non “pieno”), con un cambio di paradigma del sistema di protezione sociale che evoca l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (art. 2 Cost.), spostandone l’asse dalla solidarietà categoriale alla solidarietà generale. c) Il terzo tratto caratteristico dei nuovi sussidi attiene alla loro regolazione positiva e può essere così sintetizzato: la prestazione economica assistenziale (non perde, ma) ridefinisce il suo rapporto con il lavoro e/o col dovere di svolgere attività socialmente utili (ex 4, comma 2, Cost.) e diventa, laddove erogata, una prestazione “condizionata”. Diversamente dall’accezione che se ne ricava dal testo costituzionale (l’art. 38, comma 1), negli istituti di più recente introduzione (dall’ASDI al ReI sino al neonato RdC), [continua ..]
Se questo è il quadro, è possibile segnalare un paio di profili che, alla luce delle considerazioni svolte sul modello ideal-tipico di inclusione attiva, si presentano come veri e propri epicentri critici della recente disciplina del RdC. a) Il primo riguarda le integrazioni della nozione di “offerta congrua di lavoro” contenute nel comma 9 dell’art. 4 della legge n. 26/2019[77]. Come si ricorderà, a livello di legislazione statale, la nozione era stata fornita per la prima volta dall’art. 25 del d.lgs. n. 150/2015, mentre numerosi e diversificati erano stati, nel primo decennio del secolo, gli interventi regionali sulla “congruità” dell’offerta (relativi alla perdita dello status di disoccupazione) ex art. 4 del d.lgs. n. 181/2000 [78]. Le principali integrazioni apportate dalla legge n. 26/2019 all’art. 25 del decreto di riordino dei SPI combinano tre criteri: la durata di fruizione del beneficio, il numero di offerte rifiutate e la distanza del luogo di lavoro proposto da quello di residenza del beneficiario; non vengono, invece, rivisti altri e più significativi parametri di congruità che riguardano le competenze, le esperienze, la retribuzione. È vero che questi ultimi sono contemplati dall’art. 25 del d.lgs. n. 150/2015 (integrato, per tali profili, dal d.m. 10 aprile 2018 e mantenuto in vigore dalla nuova disciplina) e che in quella normativa la «coerenza con le esperienze e le competenze maturate» è il primo dei parametri di congruità (art. 25, comma 1, lett a), al quale si aggiunge il requisito della «retribuzione superiore di almeno il 20 per cento rispetto alla indennità percepita nell’ultimo mese precedente». Ma è anche vero – ed è significativo – che nell’integrazione della disciplina dell’offerta congrua operata dalla legge sul RdC, il legislatore abbia esclusivamente articolato, come parametro di congruità dell’offerta, la distanza chilometrica tra il luogo di residenza del beneficiario e l’ipotetico posto di lavoro, combinandola con criteri (la durata di fruizione del beneficio, il numero di offerte rifiutate) che, di certo, non hanno rinsaldato l’idea di “suitable employment” raccomandata dalle fonti sovranazionali (e, in particolare, da diverse Convenzioni dell’OIL [79]) e dalle istituzioni [continua ..]
Due ultime considerazioni sono sollecitate dall’analisi sin qui svolta ed entrambe riportano ai temi di apertura di queste pagine. La prima è che i LEP non possono riguardare solo le prestazioni assistenziali – il RdC, in particolare – ma devono riguardare anche i servizi, che dovrebbero sostenere l’aspetto proattivo dell’assistenza in quanto protagonisti della componente dinamico/promozionale del sistema di protezione sociale. L’attivazione si declina «sia come impegno istituzionale, sia come impegno individuale richiesto ai beneficiari» e se i destinatari dei sussidi devono diventare «attori compartecipi della costruzione della risposta ai propri bisogni», le istituzioni pubbliche sono chiamate a sviluppare servizi per il lavoro promozionali e personalizzati, oltre che integrati con altri profili di intervento sociale [91]. Non a caso, la questione dei LEP è stata al centro del provvedimento di riordino dei SPI e della PAL del Jobs Act (il d.lgs. n. 150/2015) ed infatti molte disposizioni [92] di quel decreto sono considerate LEP. Lo scarto tra quei dati normativi e l’effettiva realizzazione degli obiettivi che vi erano sottesi [93] fa sì che le politiche assistenziali contestuali e successive al Jobs Act, anche le migliori (dall’ASDI al RdC, passando per il ReI), rischino di perdere solidità in presenza di politiche del lavoro distanti dal modello ideale di inclusione attiva al quale in più punti di questo scritto si è fatto riferimento. Tanto più che ci si trova ancora di fronte a SPI e PAL ad efficienza variabile e che tale variabilità dipende non solo dalle diversità strutturali dei mercati del lavoro (regionali e locali) – poco azzerabili dall’accorgimento tecnico che consente ai beneficiari del RdC di ricevere una terza offerta di lavoro «ovunque collocata nel territorio italiano» – ma anche dalle differenze legate allo storico e diversificato tasso di efficienza delle pp.aa. che presiedono alla organizzazione dei servizi pubblici per l’impiego. Ed è noto che l’efficienza delle politiche sociali e del lavoro è strettamente legata all’efficacia degli apparati amministrativi preposti a gestirle e dipende, in ultima analisi, dalle capacità istituzionali di questi ultimi [94]. Di fatto, il rischio di assistenzialismo [continua ..]