Il contributo analizza le correlazioni tra le dimissioni per giusta causa e l’evento oggetto di tutela nel caso di disoccupazione. Il saggio ripercorre, in prima battuta, l’evoluzione del concetto di giusta causa e gli specifici orientamenti giurisprudenziali in materia di dimissioni ex art. 2119 c.c. In secondo luogo, l’autore indaga il legame tra imputabilità della risoluzione del rapporto di lavoro e carattere involontario dello stato di disoccupazione.
This paper focuses on the relationship between employee resignation due to good reason and the scope of protection during the unemployment status. Firstly, the essay reviews the evolution of the good reason and some specific case law on resignation according to art. 2119 c.c. Secondly, the author investigates the link between the reason of dissolution of the contract ascribable to the worker and the involuntary aspect of the unemployment status.
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1. Inquadramento generale e nessi di sistema - 2. Il concetto di giusta causa nell'ipotesi di dimissione - 3. L'evoluzione giurisprudenziale e le tipologie di casi - 4. L'evento oggetto di tutela nel caso di disoccupazione - 5. Osservazioni conclusive - NOTE
Il contributo si propone di verificare, alla luce dei recenti e contrastanti indirizzi giurisprudenziali [1], il nesso che collega l’istituto delle dimissioni per giusta causa [2] al concetto di disoccupazione involontaria [3]. Quest’ultimo, di matrice costituzionale (art. 38, comma 2), riconduce la involontarietà alla mancanza di lavoro e, in forza della nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) (art. 1, comma 2, l. n. 183/2014; art. 7, comma 2, d.lgs. n. 22/2015), si connette all’impossibilità di una ricollocazione [4] lavorativa nonostante la immediata disponibilità a svolgere attività e a partecipare a misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego [5] (art. 19, comma 1, d.lgs. n. 150/2015, come modificato dall’art. 4, comma 1, lett. i, d.lgs. n. 185/2016) [6]. L’art. 2119 c.c. prevede l’ipotesi di dimissioni per giusta causa allorquando si presenti, come per il licenziamento, «una causa che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto». La giusta causa di dimissioni non può essere ravvisata in base ad una valutazione meramente soggettiva del lavoratore, ma solo in relazione ad un grave inadempimento contrattuale, ovvero nella lesione di principi costituzionali di libertà e dignità del lavoro [7]. Come noto, invece, proprio l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 22/2015 relativo alla nuova assicurazione sociale per l’impiego ha confermato l’evento protetto – cessazione del rapporto di lavoro (subordinato) non imputabile al prestatore – ma ha espressamente riconosciuto il principio, già enucleato dalla Corte Costituzionale nel 2002 [8], per cui l’indennità di disoccupazione spetta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, l. n. 604/1966, come modificato dall’art. 1, comma 40, l. n. 92/2012 [9]. Dal punto di vista sistematico, questi due casi costituirebbero una deroga al generale requisito della involontarietà della cessazione del rapporto di lavoro [10] e sarebbero da escludere dall’ambito di applicazione [11], tuttavia il riconoscimento del diritto a percepire l’indennità ha trovato [continua ..]
In via preliminare, è opportuno procedere per gradi e analizzare il recesso per giusta causa da parte del lavoratore [14] per poi riflettere sull’area di protezione della nuova assicurazione sociale per l’impiego. La norma codicistica (art. 2119 c.c.), apparentemente neutra rispetto alla possibilità per ciascuno dei contraenti di recedere dal rapporto di lavoro [15], si riferisce ad ipotesi di oggettiva gravità, tali da rendere inevitabile la rottura del vincolo negoziale. Ciononostante, la disposizione è generica e lascia ampi margini intrepretativi alla giurisprudenza oltre che alla contrattazione collettiva. In questa sede non è possibile ripercorrere l’interessante dibattito terminologico sulla qualificazione come generale, o elastica, o indeterminata della norma [16]. L’espressione «giusta causa», contenuta nell’art. 2119 c.c., rinvia ad un concetto elastico ed indeterminato, bisognoso di essere chiarito mediante il ricorso a parametri valutativi di natura oggettiva [17]. Ciò non toglie che la sua applicazione si ponga in termini differenti rispetto alle ipotesi di clausole generali [18], atteso che queste ultime impongono al giudice una scelta per la risoluzione del caso concreto attingendo a valori sociali esterni al diritto positivo, mentre per la norma generale, prodotta secondo la tecnica della fattispecie, ciò non è richiesto in quanto perfettamente strutturata, anche se con margini più o meno ampi di adattamento al caso singolo, attraverso elementi di tipicità sociale, rinvenibili nella norma stessa [19]. Peraltro, l’assenza di una modifica formale del concetto di giusta causa in sede di riforma della disciplina dei licenziamenti individuali (l. n. 108/1990; l. n. 183/2010; l. n. 92/2012; d.lgs. n. 23/2015) [20] ha consentito la sopravvivenza delle consolidate elaborazioni teoriche in materia [21], anche se non sono mancate posizioni più scettiche che ne hanno evidenziato la crisi in forza delle novelle legislative effettuate sul piano degli ammortizzatori sociali. Un primo orientamento della dottrina ha configurato la struttura della giusta causa delle dimissioni in modo non dissimile dalla giusta causa del licenziamento ovvero ha ricompreso nella nozione ogni fatto anche estraneo all’adempimento degli obblighi negoziali che possa incidere sulla sfera della parte [continua ..]
In via generale, si possono distinguere due tipologie di casi che configurano dimissioni per giusta causa, la prima delle quali attiene a quelle situazioni, non incidenti sull’adempimento del contratto, in cui la «prosecuzione del rapporto sia intollerabile per il lavoratore tenuto conto della sua personalità, della natura del rapporto di lavoro e dell’ambiente in cui questo si svolge» [40] e l’altra, più ampia, riguarda quelle circostanze caratterizzate da atti di inadempimento contrattuale del datore di lavoro, «che vulnerano direttamente il rapporto obbligatorio in ragione della gravità del danno e non del loro grado di incidenza su di un improbabile presupposto fiduciario» [41]. Nel primo nucleo casistico si possono annoverare quelle ipotesi in cui la giusta causa è ascrivibile al prestatore di lavoro: si pensi ai casi di «grave impedimento personale dello stesso lavoratore all’adempimento della prestazione» [42] oppure alle situazioni in cui la prosecuzione del rapporto potrebbe compromettere irreparabilmente i diritti primari del lavoratore ovvero mortificarne la personalità [43]. Alla luce di tale interpretazione, confluiscono all’interno delle dimissioni per giusta causa tutti quei fatti che, pur essendo oggettivamente originati da un comportamento lecito – avuto riguardo al concreto rapporto, al suo oggetto, al suo modo di svolgimento ed a coloro che ne sono i soggetti – appaiano idonei a determinare la immediata impossibilità di continuare a mantenere in vita il rapporto medesimo, purché si tratti di circostanze che si presentino con caratteristiche di oggettiva gravità, da cui derivi un’effettiva incompatibilità rispetto alla permanenza del lavoratore nel posto occupato [44]. Nel secondo blocco di situazioni alcuni orientamenti giurisprudenziali [45] inseriscono tutti quei comportamenti non giustificati che abbiano gravemente violato i principi di correttezza e buona fede tipici delle obbligazioni contrattuali. Una delle situazioni ricorrenti che costituisce giusta causa di recesso del lavoratore ai sensi dell’art. 2119 c.c. e grave inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del datore di lavoro è il mancato pagamento della retribuzione [46], la quale, essendo il corrispettivo fondamentale della prestazione di lavoro [continua ..]
Dopo aver affrontato il delicato snodo sistematico delle dimissioni per giusta causa è opportuno riflettere su un tema topico del diritto del lavoro, l’unicità dell’evento oggetto di tutela nel caso di disoccupazione: ovvero, una definizione dello stato di disoccupazione valida sia per l’attivazione delle politiche del lavoro sia ai fini dell’erogazione di tutte le prestazioni previdenziali previste per la disoccupazione [75]. Soltanto sulla scorta di tale istituto, infatti, si può determinare la connessione necessaria fra erogazione di prestazioni economiche per la disoccupazione e attuazione di politiche attive del lavoro dirette al reinserimento del lavoratore nel mercato. L’evento protetto dovrebbe essere idoneo a contenere, oltre alla disoccupazione tradizionalmente intesa, anche le fasi di discontinuità lavorativa. La strada da percorrere a questo fine è essenzialmente quella della ridefinizione del concetto di involontarietà della disoccupazione e della sua misura, ovvero della disponibilità al lavoro [76]. In altri termini, deve essere considerato disponibile al lavoro, e come tale meritevole della tutela economica e occupazionale, anche chi, a causa della marginalità o discontinuità del proprio lavoro, non riesca a raggiungere un reddito sufficiente a garantirgli l’integrazione sociale, nel senso posto dall’art. 3, comma 2 della Carta costituzionale. In questa direzione, depongono tutte quelle disposizioni che sospendono lo status di disoccupato e l’indennità previdenziale quando intervengono brevi periodi di occupazione, o che mantengono lo status di disoccupato a fronte della percezione di redditi da lavoro inferiori ad un certo limite minimo [77] (art. 9, comma 1, d.lgs. n. 22/2015). In questa opera di revisione dell’evento protetto, dovrà essere data adeguata considerazione alle possibilità reali di reimpiego del disoccupato: le condizioni effettive del mercato del lavoro dovranno essere valutate nell’ambito del giudizio di disponibilità al lavoro [78]. Affrontare la riconfigurazione del requisito generale della involontarietà della disoccupazione per beneficiare della relativa indennità significa stabilire se la carenza di un lavoro debba essere, in altri termini, conseguenza di un fatto non voluto dal lavoratore. Un tale presupposto [continua ..]
A conclusione di questo contributo, risulta difficile far rientrare le dimissioni per giusta causa nelle ipotesi di disoccupazione voluta dal lavoratore, visto che la libera scelta del lavoratore sarebbe bloccata tra uno stato di disoccupazione non tutelato e uno stato di occupazione non più adeguato. In definitiva, il lavoratore, sotto il profilo della indennità di disoccupazione, appare tutelato nel caso di licenziamento per giusta causa, ma sembra non lo sia altrettanto di fronte ad una situazione oggettiva che rende impossibile continuare a prestare la propria opera. In tal modo possono verificarsi due effetti completamente contrastanti: se, infatti, l’iniziativa della risoluzione del rapporto proviene dal datore attraverso il licenziamento per motivi disciplinari, il lavoratore avrà diritto all’indennità di disoccupazione; nel caso in cui, invece, sia il lavoratore a prendere l’iniziativa, a seguito di una situazione dettata da motivi di salute, perderà tale diritto. Conseguenza diretta e paradossale di questa situazione è la piena garanzia dell’ordinamento rispetto a comportamenti del datore di lavoro e la negazione giuridica dell’indennità di disoccupazione nei confronti di una condizione oggettiva del lavoratore. Tale approccio interpretativo non appare coerente e si può tradurre in una mortificazione della personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.): peraltro, è opportuno ricordare che, in via generale, configura giusta causa di dimissioni il mancato rispetto delle norme poste a tutela della salute del dipendente Ciò significa che se il lavoratore è stato licenziato per giusta causa a seguito di un grave inadempimento a danno del datore ha diritto all’indennità di disoccupazione [98]; se, invece, si dimette per giusta causa perché, al contrario, le cattive condizioni di salute rendono improseguibile il rapporto, non ha diritto ad alcuna tutela [99]. Il problema appare in questo caso evidente e necessita di una soluzione equilibrata, magari anche ad opera delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.