Nel saggio si prende posizione su talune questioni discusse, in tema di licenziamenti collettivi. Si nega sussista un eccesso dalla legge di delegazione. Si pone invece in luce l’irrimediabile aporia cui dà luogo l’estensione della disciplina di cui al d.lgs. n. 23/2015 ai lavoratori già in forza prima del 7 marzo 2015, presso datori di lavoro che, in ragione delle nuove assunzioni, superano la soglia numerica di cui all’art. 18, co. 8, 9 Stat. lav. Si lamenta (con riferimento in generale alla diversa disciplina di vecchi e nuovi assunti) l’irrazionalità dell’operare contemporaneo e non scaglionato nel tempo di due diverse discipline. In particolare, si lamenta che le differenze di regime assai significative introdotte tra vecchi e nuovi assunti rendano impraticabile una ragionevole comparazione tra i lavoratori, falsando i criteri di scelta. Si sottolineano talune criticità della mancata disciplina, da parte del d.lgs. n. 23/2015, del licenziamento collettivo dei dirigenti. Ci si sofferma sulle importanti ricadute della recente giurisprudenza della Corte di giustizia, che – con riferimento alla direttiva 98/59/Ue – considera “cessazioni del rapporto assimilabili al licenziamento” quelle modifiche sostanziali degli elementi essenziali del contratto per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, disposte unilateralmente dal datore di lavoro a svantaggio del lavoratore il cui rifiuto dia luogo alla risoluzione del rapporto. Si dà un’interpretazione conforme alla direttiva 98/59/Ue della previsione, applicabile anche al licenziamento collettivo dei nuovi assunti, della possibile stipulazione di accordi sindacali con efficacia “sanante”. Infine, ci si interroga se, in caso di mancata corretta attuazione delle procedure sindacali, il giudice possa, o no, ex art. 28 Stat. lav. ordinare il ripristino del rapporto.
This paper takes a position on some of the issues being discussed on collective redundancy.
It is held that the legislative decree has not gone beyond the limits set by delegated legislation.
By extending the measures contained in legislative decree no. 23/2015 to workers recruited prior to 7 March 2015 simply because their employer – by increasing his payroll – exceeded the threshold as per article 18, subsections 8 and 9, an irreversible aporia has been created. Emphasis is also given to the irrationality (with general reference to the differential treatment of existing as against newly-hired employees) of having two differential forms of regulatory treatment operate side by side instead of phasing in the new provisions over time, to produce a more harmonious normative environment. It is especially deplored that the very significant differences introduced in the statutory treatment affecting existing employees and newly hired employees make a reasonable comparison between workers impossible, thereby falsifying criteria of choice.
Some critical aspects are highlighted regarding the failure to include managers pursuant to legislative decree no. 23/2015. Some important implications of the recent case law of the European Court of Justice are also dwelt upon, whereby – in reference to directive 98/59/EU – “terminations of the labour contract are to be assimilated to redundancy” with reference to substantial changes in the essential elements of the employment contract brought about not for reasons regarding the person of the worker but unilaterally introduced by the employer to the detriment of the employee, whose refusal to accept them gives grounds for termination of the employment contract. An interpretation is given in line with directive 98/59/EU of the provisions applicable to the collective redundancy of newly hired employees, and of the possible stipulation of trade union agreements having a “sanative” efficacy. In conclusion, it is asked if, in the event of failure to correctly implement trade-union procedures, a labour-tribunal judge could order to the reinstatement of a worker pursuant to article 28 of the Workers’ Statute.
1. Premessa - 2. Circa il preteso eccesso di delega - 3. L'applicazione dell’art. 10 d.lgs. n. 23/2015 ai lavoratori già in forza prima del 7 marzo 2015. L'irragionevolezza della disciplina - 4. Ulteriori profili di irragionevolezza della disciplina di cui all'art. 10 d.lgs. n. 23/2015 - 5. La mancata inclusione dei dirigenti - 6. Le ricadute indirette della dir. 2001/23/Ue in tema di trasferimento d'impresa - 7. Le ricadute nel nostro ordinamento delle recenti sentenze della Corte di Giustizia C-429/16 e C-422/14 - 8. La c.d. efficacia "sanante" degli accordi sindacali - 8.1. I possibili esiti dell'azione di repressione della condotta antisindacale - NOTE
Molte e complesse sono le questioni che la recente disciplina dei licenziamenti collettivi intimati ai lavoratori assunti con “contratto a tutele crescenti” pone. Ciò che, tuttavia, stupisce è come una così rilevante modifica normativa, di profondo impatto sociale e tale da generare un’ulteriore, assai significativa, frammentazione dei regimi di tutela rispetto a quella già introdotta dalla l. n. 92/2012, sia intervenuta in assenza di un complessivo e unitario disegno riformatore e “quasi di soppiatto” [1], generando addirittura significativi dubbi circa la sua effettiva copertura, o no, nella legge di delegazione. Ed è, forse, proprio l’assenza di un unitario disegno riformatore, capace di armonizzare “vecchio e nuovo” in un sistema coerente, che fa emergere svariati profili di dubbia ragionevolezza e di difficile armonizzazione della disciplina in oggetto, oltre che con la cornice costituzionale, anche con quella comunitaria; oltre che difficili questioni di “raccordo” con altri frammenti normativi, di cui al nostro ordinamento. Di talune di tali questioni ci si intende occupare, nel presente lavoro.
Come noto, all’indomani dell’emanazione del d.lgs. n. 23/2015 si è da più parti dubitato della compatibilità della disciplina di cui all’art. 10 con la cornice costituzionale. Dubbi – alimentati dai lavori preparatori relativi alla legge di delegazione e dal parere della Commissione lavoro di Camera e Senato [2] – sono affiorati, innanzitutto, con riferimento al preteso eccesso di delega, posto che la nozione di “licenziamento economico” (di cui all’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 183/2014) [3] non era stata mai utilizzata dal legislatore per designare il licenziamento collettivo. La locuzione, si è detto, designerebbe dunque solo i licenziamenti di cui all’art. 3, l. n. 604/66 ed in particolare solo quelli connotati da “ragioni d’impresa” e non quelli per giustificato motivo oggettivo “personale” [4]; ed in tal senso deporrebbe anche una recente sentenza di Cassazione, che utilizzerebbe la locuzione “licenziamento economico” proprio in contrapposizione a quello collettivo [5]. Ora, da un lato, la locuzione “licenziamento economico” non era stata utilizzata, a quanto consta, dal legislatore prima d’ora neppure per designare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo; dall’altro, troppo debole pare l’argomento testuale ricavato dalla sentenza della Cassazione n. 28426/2013, la quale si limita a contrapporre licenziamento per giustificato motivo oggettivo “per ragioni d’impresa” (in tal senso, chiamato “economico”) e licenziamento collettivo – da un lato – ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo “cd. personale” – dall’altro – onde escludere che, in tali ultimi casi (g.m.o. “personale”), trovi applicazione l’art. 10, l. n. 68/1999, relativo al rispetto delle quote di riserva per i disabili. Tanto è vero che in una successiva pronuncia dello stesso tenore (che si richiama a Cass. 28426/2013) la Cassazione – nel mettere, invece, in contrapposizione le suddette fattispecie con quella del licenziamento “per superamento del periodo di comporto” – torna a riferirsi al licenziamento “per giustificato motivo oggettivo” e al licenziamento collettivo omettendo di utilizzare, (solo) per il primo, la locuzione di [continua ..]
Molteplici dubbi suscita poi l’individuazione del campo di applicazione della disciplina in commento, in particolare per quanto riguarda il combinato disposto della legge di delegazione (art. 1, comma 7, lett. c), e degli artt. 1, comma 3 e 10 del d.lgs. n. 23/2015. Come è stato notato, ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, illegittimamente licenziati collettivamente, trova applicazione il regime sanzionatorio di cui all’art. 5, l. n. 223/1991, come modificato dall’art. 1, comma 46, l. n. 92/2012. Se però, per effetto di nuove assunzioni a tempo indeterminato, intervenute a far data dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, il datore di lavoro superi la soglia prevista dall’art. 18, commi 8 e 9 (la quale non coincide affatto con la soglia numerica per l’applicazione della l. n. 223/1991), anche ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 che transitano “in area 18” troverà applicazione, in caso di licenziamento collettivo, la disciplina sanzionatoria di cui all’art. 10, d.lgs. n. 23/2015 [13]. Ora, per meglio chiarire i possibili esiti di irragionevolezza cui tale disposizione può dare luogo, occorre ricordare, in via preliminare, che il lavoratore che, essendo stato assunto prima del 7 marzo 2015 da un datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8, 9, venga proiettato, per effetto delle nuove assunzioni a tempo indeterminato, “in area 18” “passa” – nel caso di licenziamento individuale – dal regime di tutela previsto per le aziende di piccole dimensioni (che ha il suo fulcro, nel caso di licenziamento ingiustificato, nell’art. 8, l. n. 604/1966) a quello delle “tutele crescenti” (per i datori di medio grandi dimensioni) [14]. Ratio della disposizione è dunque quella di consentire al datore di lavoro “sotto soglia” nuove assunzioni a tempo indeterminato senza che, per tale ragione, “scatti” il più gravoso regime sanzionatorio di cui all’art. 18 Stat. lav. (come modificato dalla legge Fornero), ma unicamente il regime sanzionatorio previsto, per i datori di medio grandi dimensioni, dal “Jobs Act”; regime che – dal punto di vista del lavoratore – è sostanzialmente più favorevole rispetto a quello precedentemente goduto. La disposizione “premia” dunque, sotto [continua ..]
Tali considerazioni critiche vanno ad aggiungersi a quelle, già svolte dalla dottrina, che si è a più voci interrogata sulla ragionevolezza [18] o no della scelta del d.lgs. n. 23/2015 di fondare una sì rilevante differenza di tutela – acuita dalla difformità del rito [19] – su di un dato del tutto estrinseco (ma capace di introdurre «un’ulteriore e grave divaricazione del mercato del lavoro») [20], quale quello della data di assunzione. Ora, è vero che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, non contrasta «di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» [21]. E tuttavia – come è stato osservato – tali considerazioni non paiono pertinenti, poiché, nell’impianto del Jobs Act, «la situazione dei lavoratori soggetti a diverse tutele è in tutto identica ed il fluire del tempo non riguarda la situazione posta a base del recesso (ma solo il momento genetico del rapporto, irrilevante ai fini della valutazione del fatto)» [22]. Sicché l’irrazionalità sta, sostanzialmente, nell’operare contemporaneo e non scaglionato nel tempo, di due diverse discipline [23]. D’altro lato, in senso critico nei confronti dell’impianto complessivo del d.lgs. n. 23/2015, si è pure invocata l’efficacia diretta del principio di uguaglianza, di cui all’art. 20 della Carta di Nizza, destinato «ad operare al di là dei divieti discriminatori, ma limitatamente a violazioni che ridondino in ingiustificate differenze di trattamento di situazioni identiche delle persone coinvolte», come ad esempio il caso di «due (gruppi di) dipendenti, assunti prima e dopo il Jobs Act, licenziati per motivo economico comune, con applicazione di tutele diverse» [24]. Detti profili di criticità sono resi ancora più evidenti, per i licenziamenti collettivi, dalla circostanza che “vecchi” e “nuovi” assunti sono “messi in comparazione” nell’ambito di una medesima procedura [25]. In sostanza, ben può darsi il caso che un medesimo [continua ..]
Perplessità ha, poi destato la mancata espressa considerazione dei dirigenti nell’ambito della disciplina relativa ai licenziamenti collettivi, di cui al d.lgs. n. 23/2015. Sono note le vicende che hanno portato, dopo la condanna dell’Italia [37] alla previsione – in caso di licenziamento collettivo – di separate procedure di consultazione sindacale e all’introduzione di una tutela indennitaria (compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) per i dirigenti illegittimamente licenziati «fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro» (art. 24, l. n. 223/1991) [38]. In tale contesto, la mancata previsione di un diverso regime sanzionatorio per i dirigenti assunti a far data dal 7 marzo 2015 porta, necessariamente, a ritenere applicabile agli stessi la disciplina sanzionatoria di cui all’art. 24, l. n. 223/1991 e non “revocabile” ex art. 5, d.lgs. n. 23/2015 il licenziamento agli stessi intimato. Si avrà, così, l’effetto – del tutto anomalo nella sistematica legale dei licenziamenti [39] – che, per un neo-assunto (a far data dal 7 marzo 2015), l’acquisizione della qualifica dirigenziale comporta il “passaggio” ad un regime di tutela ben più favorevole, in caso di licenziamento collettivo. Con l’ulteriore effetto che, ad esempio, gli pseudodirigenti potranno assommare la maggior tutela loro garantita – da granitica giurisprudenza – in caso di licenziamento individuale illegittimo, con quella agli stessi spettante, per effetto dell’inquadramento “di maggior favore” nel caso di licenziamento collettivo illegittimo [40]. Pur se desta indubbie perplessità l’idea che il dirigente possa invocare, a seconda della convenienza, l’inquadramento formale o la situazione sostanziale.
Indirette, ma importanti ricadute in ordine all’applicazione del d.lgs. n. 23/2015 derivano, poi, dalla disciplina di matrice comunitaria in tema di trasferimento d’azienda, in particolare nel caso di licenziamenti collettivi disposti all’esito di “cambi d’appalto” [41]. La giurisprudenza [42] ha posto in luce come, ove – secondo un’interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 29, d.lgs. n. 276/2003 (precedente la sua modifica, ad opera della l. n. 122/2016) – il “cambio d’appalto” configuri un vero e proprio trasferimento d’azienda, il criterio della “anzianità di servizio” debba essere applicato computando anche l’anzianità pregressa dei lavoratori, maturata alle dipendenze del cedente. In sostanza, ove – malgrado l’assenza di un rapporto contrattuale diretto tra i due appaltatori – abbia luogo il «passaggio di beni di non trascurabile entità e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa» [43], secondo un’interpretazione comunitariamente orientata del “vecchio” art. 29, d.lgs. n. 276/2003 (e, oggi, alla luce dell’espresso disposto della disposizione) [44], si configura un trasferimento d’azienda. La palese violazione dei criteri di scelta (per non avere il datore di lavoro tenuto conto, nell’applicazione del criterio dell’“anzianità”, di quella pregressa, già maturata dai lavoratori presso il cedente) comporta dunque per i lavoratori già in forza presso il “cedente” prima del 7 marzo 2015 l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata, secondo il regime previgente il c.d. Jobs Act. La pronuncia [45] offre, forse, uno spunto per l’interpretazione dell’art. 7 d.lgs. n. 23/2015: ove il subentro nell’appalto si configuri quale vero e proprio trasferimento d’azienda, la disciplina applicabile, in caso di licenziamento collettivo, sarà quella derivante, appunto, dall’art. 2112 c.c., appena tratteggiata. Al contrario, ove il lavoratore – pur in assenza di “trasferimento d’azienda”, “passi” (per effetto di riassunzione) alle dipendenze del nuovo appaltatore, la disciplina sarà quella di cui all’art. 7, d.lgs. n. 23/2015, con computo della pregressa [continua ..]
Ulteriori spunti di riflessione, in ordine alla disciplina attuale del licenziamento collettivo (riferita tanto ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, quanto ai lavoratori già in forza), derivano poi dalla più recente giurisprudenza comunitaria, relativa alla direttiva 98/58/Ue [49]. Come noto, ai sensi dell’art. 1 della direttiva 98/59/Ue, per il calcolo del numero dei licenziamenti previsti nel comma 1, lett. a), sono assimilate ai licenziamenti le cessazioni del contratto di lavoro verificatesi per iniziativa del datore di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, purché i licenziamenti siano almeno cinque. La Corte di giustizia – con una “fuga in avanti” rispetto ai propri precedenti, che non può che destare perplessità – ha tuttavia recentemente chiarito che, ai sensi della direttiva, devono considerarsi veri e propri “licenziamenti” (cd. licenziamenti indiretti”) – e non solo cessazioni del rapporto “assimilabili” al licenziamento – quelle modifiche sostanziali degli elementi essenziali del contratto per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore, disposte unilateralmente dal datore di lavoro a svantaggio del lavoratore il cui rifiuto dia luogo alla risoluzione del rapporto, trattandosi di fattispecie connotate, sostanzialmente, dalla “mancanza di consenso”. In tale senso deve essere letto il riferimento che la Corte fa (nella sentenza C-422/14) alla nozione di «licenziamento di cui all’articolo 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a)», in contrapposizione alla nozione di “cessazioni assimilabili” di cui all’ultimo comma del paragrafo 1 dell’art. 1 [50]. Ed in effetti, nella sentenza C-429/16 la Corte espressamente chiarisce che in tali casi devono essere esperite le consultazioni sindacali. Né – per “neutralizzare” le ricadute delle pronunce nel nostro ordinamento – può obiettarsi che il decisum della Corte sia strettamente condizionato dallo specifico contesto normativo nazionale di riferimento: se è vero, infatti, che nel caso polacco la legislazione nazionale prevedeva espressamente la risoluzione del contratto quale conseguenza della mancata accettazione da parte del lavoratore delle modifiche “sostanziali” unilateralmente imposte dal datore di lavoro, non [continua ..]
Ulteriore questione, comune ai vecchi e ai nuovi assunti, sulla quale esplica la sua efficacia la direttiva 98/59/Ue, riguarda poi la c.d. efficacia “sanante” degli accordi sindacali. Ora, secondo l’interpretazione che pare preferibile, il comma 12 dell’art. 4 della l. n. 223/1991 – ai sensi del quale gli eventuali vizi della comunicazione di apertura possono essere sanati «nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo» – trova applicazione anche ai licenziamenti collettivi intimati ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, poiché le specificità del c.d. “Jobs Act” attengono unicamente alla disciplina sanzionatoria [59]. Ai sensi dell’art. 2, comma 3 della direttiva 59/98/Ce, «affinché i rappresentanti dei lavoratori possano formulare proposte costruttive, il datore di lavoro deve in tempo utile e nel corso delle consultazioni fornire loro tutte le informazioni utili», comunicando per iscritto le “ragioni del progetto di licenziamento” e le ulteriori informazioni di cui al medesimo art. 2. Ai sensi dell’art. 6 della direttiva, gli stati membri provvedono «affinché i rappresentanti dei lavoratori e/o i lavoratori dispongano di procedure amministrative e/o giurisdizionali per far rispettare gli obblighi» previsti dalla direttiva stessa. Inoltre, secondo i principi del diritto comunitario (ed in particolare secondo il principio di leale cooperazione all’attuazione del diritto comunitario e di efficace trasposizione delle direttive) occorre che le sanzioni per il mancato rispetto degli obblighi imposti dalla direttiva siano “effettive, proporzionate e dissuasive” [60]. La direttiva comunitaria impone dunque – senza possibilità di eccezioni, riserve, o sanatorie – che i rappresentanti dei lavoratori ricevano un’informazione completa e trasparente in ordine alle ragioni “del progetto di licenziamento”, il numero e le categorie dei lavoratori da licenziare e di quelli abitualmente occupati, nonché tutte le “informazioni utili” al fine di poter esercitare la loro funzione di controllo, in particolare al fine di attenuare le conseguenze derivanti dai licenziamenti collettivi (considerando 3 e 7 della direttiva 98/59/Ue). Ed il mancato rispetto di tali precetti non [continua ..]
Prima delle recenti riforme del 2012-2015, erano state tutto sommato marginali le ipotesi in cui il sindacato aveva fatto ricorso allo speciale provvedimento ex art. 28 Stat. lav. al fine di ottenere – mercé l’ordine di “cessazione del comportamento e rimozione degli effetti” – il ripristino del rapporto di lavoro dei prestatori illegittimamente licenziati in violazione delle procedure sindacali, avendo i lavoratori stessi accesso alla reintegrazione ex art. 18 Stat. lav., tramite l’impugnazione del licenziamento collettivo. Ora, con riferimento alle ipotesi di licenziamento individuale discriminatorio (per ragioni sindacali) la giurisprudenza prevalente ritiene che, ex art. 28 Stat. lav., sia possibile ordinare il ripristino (“di diritto comune”) del rapporto e il pagamento delle retribuzioni, dalla messa in mora. E ciò, malgrado il lavoratore non abbia individualmente impugnato il licenziamento [65]. Anche con riferimento alle ipotesi di licenziamento collettivo viziato nelle procedure qualche pronuncia di merito (in fattispecie precedenti la cd. riforma Fornero) era arrivata a ritenere che il giudice, adito ex art. 28 Stat. lav., potesse ordinare il ripristino del rapporto [66] (ma non in base alla speciale disciplina di cui all’art. 18 Stat. lav., appannaggio esclusivo del lavoratore), malgrado il rispetto delle procedure non si configurasse quale requisito di validità del recesso [67]. In altre pronunce si muove dalla considerazione che l’esperimento delle procedure sindacali costituisca, piuttosto, requisito di efficacia del recesso, posto nell’interesse tanto del lavoratore, nella cui sfera giuridica l’atto di esercizio del potere (licenziamento) è destinato a produrre effetti (legittimato dunque all’azione individuale), quanto del sindacato, legittimato alla speciale azione di repressione della condotta antisindacale (plurioffensiva), per poi limitarsi a dichiarare “l’illegittimità” della procedura stessa con conseguente ordine di astenersi per il futuro dall’indicata condotta e – sotto il profilo della rimozione degli effetti – a ordinare l’affissione di copia del decreto nelle bacheche aziendali [68]. La questione è stata, naturalmente, rivitalizzata per effetto della c.d. riforma Fornero (ed oggi del Jobs Act) [continua ..]