L’Autore esamina il libro di Guy Davidov, “A Purposive Approach to Labour Law”, e sostiene la necessità di una chiara comprensione degli scopi del diritto del lavoro, per favorire il mantenimento dei livelli di protezione del lavoro, necessari in una società che abbia fiducia nel futuro.
* Traduzione, con l’aggiunta di alcuni riferimenti bibliografici essenziali, dell’intervento in lingua inglese alla discussione sul volume “A Purposive Approach to Labour Law” di Guy Davidov, tenuto presso l’Università di Parma il 23 aprile 2018.
The author examines Guy Davidov’s book, “A Purposive Approach to Labour Law”, and adfirms that it is paramount to understand clearly the purposes of labour law, in order to maintain the level of protection of labour, that are essential in a society with confidence in the future.
1. La crisi dei pilastri del diritto del lavoro - 2. Persuasione e giustificazione degli interventi del legislatore - 3. Stabilità e sicurezza - 4. Brevi note critiche in ordine all’individuazione di nuovi scopi del diritto del lavoro - *** - 1. The crisis of the pillars of labour law - 2. Persuasion and justification of the legislator’s actions - 3. Stability and security - 4. Brief critical notes on the identification of the new purposes of labour law - NOTE
La lettura del libro di Guy Davidov “A Purposive Approach to Labour Law” [1] è indubbiamente affascinante, e stimola alcune (brevi e necessariamente rapide) riflessioni sugli scopi fondamentali del diritto del lavoro. Come puntualizzato condivisibilmente nell’introduzione del libro [2], questi non sono mutati in modo significativo nel corso del tempo. Si è invece realizzato un disallineamento tra gli obiettivi perseguiti, e gli strumenti approntati dal legislatore per raggiungerli. Questi si sono in alcuni casi rivelati eccessivi rispetto allo scopo che si erano prefissati, mentre in altri non sono riusciti a raggiungerli, determinando anche effetti imprevisti e non auspicati. Il ripensamento delle forme di tutela del lavoratore all’interno del contratto, e nel mercato, non può però ridursi a semplici valutazioni di efficienza (peraltro in molti casi discutibili anche nei risultati) [3], ma deve tenere conto del necessario contemperamento della pluralità di valori coinvolti. Ciò in un contesto politico ed istituzionale che è profondamente mutato rispetto all’epoca in cui le leggi fondamentali in materia di protezione dei lavoratori sono state approvate. Nella lettura del libro di Davidov può essere utile partire da uno studio (senza esagerazione definito “profetico”) di Massimo D’Antona del 1998 [4]. È evidente che nella lettura di tale scritto siamo inevitabilmente condizionati dalla consapevolezza di ciò che è accaduto dopo la sua pubblicazione, e dall’evoluzione delle tutele dei lavoratori, all’epoca appena agli inizi [5]. La distanza temporale che ci separa dalla sua redazione permette però di cogliere – come in un quadro impressionista visto da una certa distanza – la profondità della ricostruzione di fenomeni, che si sono manifestati in modo sempre più significativo in momenti successivi. Il punto di partenza della riflessione è costituito dalla considerazione che “il diritto del lavoro che conosciamo è un costrutto storico, e non ha nulla di ontologico”, e che le Costituzioni posteriori alla Seconda Guerra Mondiale (tra le quali ovviamente la nostra) proponevano “come valori giuridici della società intera, le clausole di un compromesso tra classi sociali fino ad allora radicalmente contrapposte [continua ..]
I mutamenti fin qui sommariamente richiamati rendono dunque necessario un ripensamento degli obiettivi del diritto del lavoro, ed una loro migliore illustrazione, per giustificare nei confronti dei consociati le scelte politiche volte al loro soddisfacimento. La via seguita nel diritto nordamericano, caratterizzata da un’ampia libertà contrattuale delle parti, e da poche isole di regolazione di fonte legale, non è stata ad oggi seguita nei paesi europei. Questi conservano infatti un elevato livello di tutela, all’interno della disciplina del contratto individuale di lavoro. Si è invece registrato uno spostamento del livello regolativo dei rapporti di lavoro dalla contrattazione collettiva nazionale a quella aziendale (che già in alcuni ordinamenti aveva assunto un ruolo centrale) [17], che in linea teorica non costituisce un fenomeno tale da ridurre necessariamente le soglie di protezione dei dipendenti. La discussione sugli obiettivi del diritto del lavoro, e sui modi migliori per raggiungerli, è di notevole interesse, ed oltre che all’interno della comunità universitaria sarebbe opportuno che si sviluppasse anche al di fuori di essa. Non va infatti dimenticato che le istituzioni nelle quali noi viviamo, create dal diritto e che consideriamo reali, non costituiscono realtà esistenti in natura, bensì creazioni del nostro intelletto [18]. La loro funzione dovrebbe dunque essere quella di migliorare le condizioni di vita di coloro i quali operano al loro interno. Ciò presuppone che vi sia una sufficiente condivisione degli scopi che si intende raggiungere, prima ancora che degli strumenti da impiegare, in relazione ai quali sono di regola possibili una pluralità di soluzioni. Invero, non esiste in natura alcuna “ferrea legge” dell’economia, in forza delle quali le scelte politiche si debbano considerare obbligate. Si consideri al riguardo la straordinaria varietà del dibattito economico nel corso dei secoli, che ha visto confrontarsi diverse scuole di pensiero, spesso divise sulle stesse premesse su cui costruire le diverse teorie [19]. Al riguardo, l’uso di forme espressive proprie del linguaggio matematico consente indubbiamente un maggiore rigore nell’esposizione delle conseguenze delle premesse di partenza. Tuttavia, proprio l’individuazione di tali premesse dovrebbe costituire oggetto di discussione e di [continua ..]
Nel ripensare gli scopi fondamentali del diritto del lavoro, e gli strumenti per raggiungere gli obiettivi che questo si propone, non si può prescindere dal binomio stabilità/sicurezza. Questo non significa che sia sempre necessario approntare forme di tutela di tipo reintegratorio, in caso di violazione delle norme protettive dei lavoratori. È però necessario, oltre alla predisposizione di regole protette da un sistema sanzionatorio efficace, non intaccare la fiducia dei consociati (ed in primo luogo degli imprenditori e dei lavoratori) nel miglioramento delle proprie condizioni di vita future. Tale elemento appare sfuggente, e non facilmente inquadrabile, ma dallo stesso non si può prescindere, ove si vogliano raggiungere gli obiettivi indicati da Davidov. L’intero sistema economico moderno, al cui interno il diritto del lavoro è nato ed ha raggiunto il ruolo attuale, si fonda infatti sulla fiducia nella crescita futura (e quindi sull’incremento della ricchezza disponibile) [21]. Fino al 1500 l’economia mondiale aveva mantenuto dimensioni più o meno costanti, ed i soli incrementi o decrementi significativi erano legati allo sviluppo demografico [22]. In un sistema nel quale la ricchezza globale non aumentava, l’unico modo di migliorare il livello economico di uno Stato era la sottrazione di quote di ricchezza ad altri soggetti, anche in modo violento, tramite le guerre. Tale modo di pensare non è scomparso: si pensi all’uso distorto – specie nelle divulgazioni giornalistiche – di concetti come quello di “competitività”, non in ordine a risorse obiettivamente scarse (quali l’acqua, o la terra economicamente utilizzabile), bensì alle quote di ricchezza mondiale, quasi che soltanto impoverendo il proprio vicino uno Stato potesse incrementare il benessere proprio e dei propri cittadini [23]. Soltanto con la nascita della moderna economia, e con l’introduzione del credito (strumento posto alla base dello sviluppo dei primi stati nazionali moderni) il sistema è cambiato [24]. La crescita dell’economia moderna, fondamento del sistema economico attuale, si fonda infatti sulla possibilità di ripagare domani il debito di oggi, con la crescita derivante dal corretto uso del credito ricevuto. Ciò ha un senso soltanto se si ha fiducia nella crescita economica, determinata [continua ..]
Nella lettura delle opere di economisti classici, come Adam Smith, ci si concentra spesso sull’affermazione del ruolo della cosiddetta mano invisibile del mercato. Tale concetto è però fondato su presupposti (come l’esistenza di mercati pienamente concorrenziali) del tutto inesistenti nell’esperienza storica. Assai più fondata sul dato reale è l’idea che vede l’interesse egoistico degli operatori all’incremento dei profitti, come fondamento della crescita. Il problema da risolvere non è dunque quello di impedire la realizzazione dei profitti, ma è semmai quello delle modalità della successiva redistribuzione di tale ricchezza, al fine di attenuare le diseguaglianze tra i diversi operatori. Il valore della distributive justice viene posto da Davidov a fondamento dei provvedimenti contro le discriminazioni, ed in favore dell’equo compenso per il lavoratore. Queste forme di intervento evitano che i lavoratori siano considerati diversamente, sulla base di valutazioni che non riguardino la loro capacità lavorativa, ed impongono un compenso che sia proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato (se vogliamo utilizzare concetti del nostro ordinamento costituzionale). Il diritto del lavoro però, in materia di redistribuzione della ricchezza, non può andare molto oltre. Effetti assai più significativi può invece raggiungere un sistema fiscale (nel nostro ordinamento previsto a livello costituzionale) fondato sulla progressività. Questo però si è notevolmente complicato negli ultimi anni, ed ha raggiunto un grado di complessità che ha determinato effetti paradossali. Nelle recenti elezioni politiche, infatti, i cittadini italiani si sono lasciati sedurre dall’idea di una tassazione del reddito personale, fondata su una sola aliquota al 15%, ignorando che, per il complesso gioco delle deduzioni e detrazioni fiscali, oltre il 70% dei contribuenti subiva in realtà una imposizione fiscale reale già inferiore alla percentuale sopra indicata. Ecco dunque che discutere di redistribuzione delle risorse non può prescindere dalla reale conoscenza del funzionamento dei sistemi giuridici, onde evitare che interventi non meditati raggiungano effetti opposti rispetto a quelli voluti. Ai fini della non nomination, e dunque della necessità di [continua ..]
The reading of Guy Davidov’s book “A Purposive Approach to Labour Law” [30] is undoubtedly fascinating, and stimulates some (brief and necessarily quick) reflections on the fundamental aims of labour law. As the author consistently points out in the introduction of the book [31], these have not changed significantly over time. On the contrary, a misalignment has occurred between the objectives pursued and the tools prepared by the legislator to achieve them. In some cases these proved to be excessive compared to the purpose they had been designed for, while in others they failed to reach them, also leading to unexpected and undesirable effects. The rethinking of the forms of worker protection within the contract and in the market, cannot however be reduced to simple efficiency evaluations (whose results too have been in many cases questionable) [32], but must take into account the necessary reconciliation of the plurality of values involved. All of this happens in a political and institutional context that has changed profoundly since the time when the fundamental laws on workers protection were approved. Before reading Davidov’s book it may be useful to start from a 1998 study (which, without fear of exaggerating we can call “prophetic”) by Massimo D’Antona [33]. It is evident that, when we read said work we are inevitably conditioned by our knowledge of what happened after its publication, and by the evolution of workers’ protections, which at the time was just beginning [34]. However, the temporal distance that separates us from its publishing allows us to grasp – as in an impressionist painting seen from a certain distance – the depth of the reconstruction of the phenomena, which have manifested themselves in an ever more significant way in later stages. The starting point of the reflection is constituted by the idea that “the labour law that we know is a historical construct, not in any way ontological”, and that the State Constitutions after the Second World War (including obviously the Italian one) proposed “as juridical values of the whole society, the clauses of a compromise between social classes up to then radically opposed by the unequal distribution of power and income, as a result of the different position in the sphere of production” [35]. This compromise could in fact be read as a starting point towards a new [continua ..]
The changes summarised above make it therefore necessary to rethink the objectives of labour law, and a better illustration thereof, to justify with the subjects of labour law the political choices aimed at meeting their needs. The path followed in North American law, characterized by a wide contractual freedom of the parties, and by a few islands of regulation by law, has not been followed to date in European countries. These countries in fact maintain a high level of protection, within the system of the individual employment contract. On the contrary, there has been a shift in the regulatory level of labour relations from national collective bargaining to company bargaining (which in some jurisdictions had assumed a central role) [46], which in theory is not a phenomenon that could necessarily reduce the employee protection thresholds. The discussion on the objectives of labour law, and on the best ways to achieve them, is of considerable interest, and it should be developed not just within the academic community but also outside of it. We should not forget that the institutions in which we live, created by law and which we consider real, are not objects that exist in nature, but creations of our intellect [47]. Their function should therefore be to improve the living conditions of those working within them. This presupposes that the goals we want to meet are adequately shared, even more so than the tools to be used to reach them, since there is a wide range of solutions applicable for the latter. Indeed, there is no “iron law” of the economy in nature, by virtue of which political choices must be considered obligatory. Consider, in this regard, the extraordinary variety of the economic debate over the centuries, in which different schools of thought squared off and clashed, often divided on the same premises on which the different theories could be built [48]. In this regard, the use of expressive forms typical of mathematical language undoubtedly allows greater rigour in exposing the consequences of the initial premises. However, the identification of such premises should indeed be the object of discussion and analysis, since starting from incorrect premises usually does not lead (whatever the language used) to correct conclusions. It is evident, however, that in an economic system built according to certain rules, it is possible to identify the consequences of a single legislative measure, which in the ambition to [continua ..]
In rethinking the fundamental aims of labour law, and the tools to achieve the related goals, one cannot ignore the combination of stability and security. This does not mean that it is always necessary to set up forms of protection by re-employment in case of violation of workers’ protection rules. It is however necessary, in addition to the preparation of rules protected by an effective system of sanctions, to avoid undermining the trust of the affiliates (and above all of the entrepreneurs and workers) in improving their future living conditions. This element appears elusive, and not easy to fit in any framework, but at the same time it cannot be ignored if we want to reach the objectives indicated by Davidov. The entire modern economic system, within which labour law was established and achieved its current role, is based on confidence in future growth (and therefore on the increase in available wealth) [50]. Up until the dawn of the 16th century the world economy had maintained more or less constant dimensions, and the only significant increases or decreases were linked to demographic development [51]. In a system in which global wealth did not increase, the only way to improve the economic level of a state was subtracting wealth from other subjects, even in a violent way, through wars. This way of thinking has not disappeared: just think of the distorted use – especially in journalism – of concepts such as “competitiveness”, not related to objectively scarce resources (such as water, or economically viable land), but related to global wealth, almost as if only by impoverishing one’s neighbour a state can increase its own and its citizens’ well-being [52]. Only with the birth of the modern economy, and with the introduction of credit (an instrument that underlies the development of the first modern nation states) the system changed [53]. The growth of the modern economy, the foundation of the current economic system, is based on the possibility of repaying today’s debt tomorrow, and growth derives from the correct use of the credit received. This only makes sense if one trusts in the economic growth, determined by the investment made, and on the fact that it will repay the credit. The growth in turn is based on technological progress, consisting not only in the development of scientific thought, but also in its concrete application [54], and on the consequent creation [continua ..]
In reading the works of classical economists, such as Adam Smith, we often focus on the clear definition of the role of the so-calledinvisible hand of the market. However, this concept is based on assumptions (such as the existence of fully competitive markets) that are completely non-existent and ungrounded in history. The idea that the operators’ selfish interest in increasing profits is the foundation of growth is more grounded in the real data. Therefore, the problem that we should address is not just how to increase profits but rather how should we redistribute wealth, in order to mitigate the inequalities between the various operators. The value of the distributive justice is set by Davidov as the basis for the anti-discrimination measures, in favour of fair compensation for the worker. These forms of intervention prevent workers from being considered differently, on the basis of evaluations that do not regard their working capacity, and impose a fee that is proportional to the quantity and quality of the work performed (here we are using concepts belonging to the Italian Constitution). Labour law, however, cannot go much further in the matter of redistribution of wealth. Far more significant effects can instead be achieved through a progressive taxation system (which is part of the Constitution of Italy). However, this has been considerably complicated in recent years, and has reached a degree of complexity that has led to paradoxical effects. In fact, in recent elections, Italian citizens have been seduced by the idea of personal income taxation, based on a single 15% rate, ignoring that, for the complex game of tax deductions and allowances, more than 70% of taxpayers actually paid a percentage of taxes lower than the percentage indicated above. Therefore we cannot discuss the redistribution of resources without the real knowledge of the functioning of legal systems, in order to avoid that non-mediated actions have effects opposite to those desired. For the purposes of the non-nomination, and therefore of the need to limit the supremacy of the employer towards the employee (which has at the same time an economic nature and is caused by the former having powers not granted to the latter), it should be noted that in Italy the attempts to introduce forms of democracy within companies have not been successful. This is not only due to the opposition of the employers, but also to the profound distrust of the trade unions [continua ..]