Lo scritto si propone di fare il punto sulla vicenda relativa al lavoro precario nel pubblico impiego. A tal fine pone in evidenza il rilievo che in materia assumeranno alcune attese sentenze della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale ed indica le ragioni per le quali alcune recenti innovazioni legislative non sono in grado di risolvere tutti i problemi insiti nella complessa vicenda.
The essay aims to analyze the issue of precarious employment in the public sector. For this purpose, it highlights the importance that will have some expected sentences of the Supreme Court's and of the Constitutional Court. The article shall provide the reasons for which some recent legislative innovations are not able to solve all the problems inherent the complex situation.
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1. Introduzione: caos legislativo ed attesa per difficili soluzioni giurisprudenziali - 2. Recente giurisprudenza e conversione del rapporto: il rilievo della leale collaborazione tra giudici e della possibile prevalenza del diritto "comune" - 3. Risarcimento del danno e giudici di merito - 4. Il risarcimento del danno nella giurisprudenza della Cassazione - 5. La mancata pregnanza della responsabilità dei dirigenti - 6. Il dilemma delle Sezioni Unite e la possibile questione di costituzionalità - 7. Le possibili scelte della Corte costituzionale - 8. L'art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 ed i limiti di applicabilità al settore pubblico del d.lgs. n. 368/2001 - 9. Le innovazioni introdotte dal d.l. n. 81/2015: non muta il sistema delle fonti - 10. Singole norme del d.lgs. n. 81/2015 e loro applicabilità al lavoro pubblico - 11. Riforma del sistema scolastico e contratti a tempo determinato - 12. Conclusioni - NOTE
La vicenda della precarietà del lavoro svolto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e dei problemi che porta con sé non si è per nulla conclusa dopo le recenti novità giurisprudenziali e legislative. Vi è stato, indubbiamente, un importante processo di stabilizzazione, innanzitutto nel comparto della scuola, previsto già nell’art. 15 del d.l. n. 104/2013, convertito in legge n. 128/2013, e poi nella legge di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione (legge 13 luglio 2015, n. 107, sulla c.d. “buona scuola”), che ha portato al superamento della precarietà del lavoro per circa 50.000 insegnanti. Vari sistemi per incentivare le amministrazioni a stabilizzare i rapporti di lavoro bandendo apposite procedure concorsuali erano previsti nei commi 6 ss., art. 4 del d.l. n. 101/2013, convertito in legge n. 124/2013 ed in precedenza anche dal comma 401, art. 1 della legge n. 228/2012. E pure il d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, contiene norme che vanno in questa direzione, nella misura in cui il ricambio generazionale in esso delineato dovrebbe portare all’assunzione a tempo indeterminato dei vincitori di concorso, mai immessi nei ruoli della p.a., ma utilizzati con contratti a tempo determinato [1]. In termini molto più contenuti una stabilizzazione è avvenuta anche per il personale ricercatore, tecnologo e di supporto alla ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ente piccolo, ma molto importante per la nostra salvaguardia in caso, ad esempio, di terremoti (art. 24 del d.l. n. 104/2013 di cui sopra). Il fenomeno è rimasto, tuttavia, limitato. Nel settore scolastico sono rimasti fuori tutto il personale ATA e molti abilitati con periodi di servizio nella scuola pubblica o paritaria e già sono partite una serie di cause per far valere l’illegittimità di questa discriminazione [2]. Com’è ben noto, per combattere il precariato italiano del settore pubblico un’arma molto appuntita sarebbe quella dell’applicazione della regola, propria del lavoro privato, per la quale in presenza di una pluralità di contratti con lo stesso lavoratore, per mansioni equivalenti ed ora per mansioni ricomprese nello stesso livello contrattuale, di durata superiore ai 36 mesi, a prescindere dagli intervalli tra un contratto e l’altro, è possibile [continua ..]
Chi ha sempre sostenuto la possibilità di conversione giudiziale anche nel settore pubblico ha trovato conferma delle sue tesi nelle decisioni Carratù [14], Papalia e Mascolo della Corte di Giustizia, rese con riguardo all’ordinamento italiano, cui si aggiungono altre due decisioni che censurano la mancata conformità alla Direttiva europea della disciplina lussemburghese sui contratti a tempo determinato dei lavoratori saltuari dello spettacolo, in quanto priva di misure idonee a prevenire gli abusi nella loro successione [15], e della disciplina spagnola che prevede la trasformazione dei contratti a tempo determinato successivi abusivi con pubblici dipendenti in contratti di lavoro a tempo indeterminato non permanente, e cioè con contratti che garantiscono il posto sino alla sua copertura con procedura selettiva (se il vincitore non è chi lo ricopre, il suo rapporto sine die si estingue automaticamente) [16]. Per questa opinione la giurisprudenza europea indicherebbe chiaramente l’insufficienza della normativa italiana sul lavoro a termine nel lavoro pubblico ai fini della prevenzione degli abusi in questione, mentre quella per il settore privato sarebbe sufficiente per la presenza della misura della conversione del rapporto accompagnata dall’indennizzo; i giudici italiani avrebbero il dovere di equiparare le tutele dei lavoratori pubblici con quelli privati, applicando anche ai primi le norme previste per i secondi, e non la disposizione interna che vieta la conversione, in quanto tenuti ad attuare il principio di leale collaborazione che deve instaurarsi, nell’applicazione della normativa europea, tra Stati membri dell’Unione e le istituzioni sovranazionali e tra i giudici nazionali e la Corte di Giustizia [17]. Lo spunto è ingegnoso, perché cerca di superare la pacifica non applicabilità diretta della clausola 5 dell’accordo quadro. Avendo sempre visto con favore la soluzione in termini di conversione [18], pur con le cautele che ora dirò, aggiungerei un argomento che ho già prospettato commentando la sentenza Fiamingo, intervenuta sul tema della compatibilità con l’ordinamento comunitario della disciplina del contratto a termine dei lavoratori marittimi, che ha carattere di specialità rispetto alla disciplina comune [19]. Anche per i dipendenti pubblici, ai sensi [continua ..]
Bisogna, di conseguenza, soffermarsi anche sul tema del risarcimento del danno. La norma che lo prevede sin dall’inizio era scritta male, perché si riferiva ad un danno derivante dalla prestazione di lavoro: una volta che il lavoratore fosse stato debitamente retribuito e fossero stati versati i contributi previdenziali, ogni danno che gli fosse derivato dallo svolgimento della prestazione, come un danno alla professionalità per demansionamento o alla salute, ecc., sarebbe dovuto essergli risarcito secondo le regole generali sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, rispetto alle quali nulla avrebbe aggiunto la specifica disposizione in esame. Superando il dato letterale, si poteva ipotizzare che il danno in questione fosse quello derivante dalla stipula di un contratto a termine o di una successione di contratti in violazione di norme imperative invece che di un contratto a tempo indeterminato, il danno essendo costituito dalla perdita o, meglio, dalla mancata acquisizione di un posto stabile. Anche a prescindere da altre più sottili questioni, le normali regole civilistiche sul risarcimento del danno richiedono, tuttavia, la precisa allegazione e prova del bene della vita perso o non acquisito e tutto ciò è tutt’altro che facile nella situazione in esame. Come provare, infatti, che il dipendente avrebbe lavorato per un determinato periodo presso l’ente che lo aveva assunto a termine, se il contratto fosse stato stipulato a tempo indeterminato? Che avesse lavorato fino al raggiungimento dei limiti massimi di età ai fini pensionistici era solo probabile, ma non sicuro: avrebbe potuto cambiare lavoro, perderlo, pensionarsi presto, ecc. E quali altre diverse occasioni di lavoro stabile erano state perdute per aver lavorato solo per un certo periodo in virtù di un termine risultato nullo o comunque illegittimo? In presenza di queste quasi insormontabili difficoltà probatorie, applicando il tradizionale concetto di “danno-conseguenza”, alcuni giudici di merito hanno negato che il lavoratore, nelle varie fattispecie decise, avesse provato il pregiudizio già patito o che avrebbe patito a causa del termine illegittimo, concludendo nel senso che a quest’ultimo nulla spettava: né “conversione del rapporto” né ristoro economico [21]. Altri giudici di merito, invece, quando l’illegittimità [continua ..]
Le soluzioni prospettate dalla Cassazione sono parimenti diversificate. Alcune sentenze hanno condiviso il primo dei due orientamenti qui riassunti. La prima pronuncia, premessa la specialità, rispetto all’art. 5 del d.lgs. n. 368/2001, delle previsioni di cui al comma 5, art. 36 del d.lgs. n. 368/2001 e la loro conformità alla clausola 5 dell’accordo quadro, ha confermato la decisione dei giudici d’appello che aveva ritenuto non “supportata da elementi di riscontro probatorio” la domanda che si basava sulla perdita di future occasioni di lavoro ed ha ribadito il principio per cui ogni danno scaturente dal rapporto di lavoro, come il danno biologico o quello di perdita di chances, deve essere debitamente provato, non potendosi configurare danni in re ipsa [26]. Una seconda pronuncia, muovendo dalle stesse premesse e intervenendo sul sistema delle supplenze scolastiche, ha ripreso la tesi dottrinale per la quale se una norma di rango costituzionale disconosce il diritto alla costituzione di un rapporto a tempo indeterminato, non è concepibile un risarcimento derivante dalla mancata costituzione di tale rapporto, perché mancherebbe “il presupposto stesso della tecnica risarcitoria”, vale a dire il ripristino della situazione soggettiva, garantita da una norma, che venga in concreto lesa [27]. Una terza sentenza, pronunciando su un particolare tipo di rapporto cui si ritiene di estendere la disciplina che nega la conversione ed attribuisce il diritto al risarcimento del danno, ha sancito che le successive assunzioni illegittime comportano per la p.a. una responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c., con conseguente diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in base ai comuni principi di cui all’art. 1223 ss. c.c., senza possibilità di ricorso, “ingiustificato e riduttivo”, al sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall’art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 [28]. Una quarta sentenza afferma che anche nel caso di illegittima assunzione a termine da parte di una p.a. il risarcimento esige la prova del danno, il quale non può ritenersi provato in re ipsa; confrontando, poi, la normativa italiana con l’ordinanza Papalia della Corte di Giustizia, ritiene che l’esigenza della prova del danno non renda eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto, [continua ..]
In tutte le pronunce sin qui esaminate non è stato valutato quanto possa pesare, ai fini di ciò che richiede la clausola 5 dell’accordo quadro, la previsione di molteplici responsabilità dei dirigenti che sottoscrivono il contratto con termine in violazione di norme imperative. Il divieto di conversione del rapporto in caso di violazione di disposizioni imperative concernenti l’assunzione dei lavoratori è stato compensato, sin dalla sua prima apparizione all’interno dell’art. 36 del d.lgs. n. 29/1993 [35], non solo con il risarcimento del danno, ma anche con due ulteriori elementi. Innanzitutto con la previsione per la quale rimangono ferme ogni responsabilità e sanzione. Quali responsabilità e sanzioni? A carico di chi? Di chi ha deciso e/o disposto l’assunzione: si può pensare alla responsabilità penale, disciplinare, erariale. Vi è poi l’obbligo per le p.a., apparentemente più corposo, di recuperare a carico dei dirigenti le somme pagate a titolo di risarcimento del danno, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. In seguito sono state aggiunte, forse per riempire di contenuti la salvezza di ogni responsabilità e sanzione, prima la responsabilità dirigenziale, poi la considerazione delle violazioni in esame nell’ambito della valutazione delle prestazioni a norma dell’art. 5 del d.lgs. n. 286/1999 ed infine la previsione per la quale in caso di responsabilità per irregolarità nell’utilizzo del lavoro flessibile ai dirigenti non può essere erogata la retribuzione di risultato [36]. Queste norme sono state considerate tali da punire in modo molto aspro i dirigenti responsabili [37] e da costituire una sanzione effettivamente dissuasiva dell’abuso delle forme di lavoro flessibili [38]. Dissento da questi giudizi. L’unica cosa chiara è che in presenza di una condanna a risarcire il danno la p.a. doveva recuperare la somma erogata a tale titolo dal dirigente che avesse agito con dolo o colpa grave. Non era facile, per il caos normativo che da sempre regna in materia, che i dirigenti versassero in colpa grave e comunque non si ha notizia di recuperi di questo tipo [39]. Spesso, poi, i dirigenti agiscono su richiesta o pressione degli amministratori ed allora la responsabilità non poteva che attenuarsi. Il punto [continua ..]
Se, dunque, la responsabilità dirigenziale non conferisce maggior effettività alle regole interne di attuazione della clausola 5 dell’accordo europeo, il compito delle Sezioni Unite mi sembra davvero immane. Cosa potranno fare? Se sceglieranno la prima soluzione, configurando in modo tradizionale il risarcimento di cui al comma 5 dell’art. 36, dopo l’ordinanza Papalia possono difficilmente negare che la normativa italiana confligga palesemente con la normativa europea. A mio avviso è l’intera vicenda decisa dai giudici di Lussemburgo a rendere chiarissima questa conclusione. Alla Corte si era rivolto il Tribunale di Aosta, dopo aver visto riformate dalla Corte d’Appello di Torino (nel senso di “né conversione né risarcimento”) alcune sue sentenze che avevano riconosciuto un ristoro di 20 mensilità [41]. La Corte ha affermato che l’accordo quadro osta ad una normativa interna come quella di cui all’art. 36, 5°comma, del d.lgs. n. 165/2001, se il diritto al risarcimento del danno è subordinato alla prova, a carico del lavoratore, di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego e se l’obbligo di fornire detta prova “ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio … dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione”. È vero che pur affermando l’esistenza del contrasto, i giudici di Lussemburgo non mutano sostanzialmente la loro tradizionale linea di tendenza quanto alla successione dei contratti a termine nel settore pubblico [42] e che nel caso di specie il ricorrente nel giudizio a quo non aveva fatto menzione della responsabilità dei dirigenti [43], ma è innegabile che nell’ordinanza in esame la Corte abbia colto nel segno laddove afferma l’insufficienza del risarcimento del danno, come tradizionalmente inteso, a soddisfare i requisiti delle misure richieste dalla clausola 5 dell’accordo europeo, a causa degli eccessivi oneri probatori posti a carico del lavoratore. E che questi siano eccessivi per dare la prova del danno patito sembra davvero innegabile. Se sceglieranno la prima alternativa, le Sezioni Unite dovrebbero sollevare una questione di costituzionalità per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Per evitare questo esito, le Sezioni Unite [continua ..]
C’è da chiedersi a questo punto che tipo di decisione potrebbe prendere la Consulta sia sulle eventuali questioni su cui potrebbero investirla le Sezioni Unite, sopra prospettate, sia nel giudizio sulle supplenze nella scuola pubblica successivo alla sentenza Mascolo. Nel primo caso dovrebbe dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui non prevede una misura preventiva e sanzionatoria degli abusi nella ripetizione dei contratti a tempo determinato con le caratteristiche richieste dalla clausola 5 dell’accordo quadro, come interpretato dalla Corte di Giustizia. Ma una sentenza che si limitasse a questa generica dichiarazione di illegittimità sarebbe poco incisiva, se non indicasse ai giudici quale misura dovrebbe essere applicata al posto di quelle dichiarate insufficienti per l’adempimento degli obblighi euro unitari. Nel caso dei precari della scuola, e con riferimento alla pronuncia che sarà resa dopo l’udienza del 17 maggio 2016, si è ipotizzata la possibilità che la Corte dichiari l’illegittimità della normativa sulle supplenze scolastiche non solo sotto il profilo della prevenzione degli abusi, perché non indica tempi certi per lo svolgimento delle procedure di immissione in ruolo, ma anche per l’assenza di misure repressive degli stessi, vista l’assenza del risarcimento del danno; da una pronuncia che toccasse anche questo secondo profilo i giudici potrebbero trarre immediate conseguenze applicative, accogliendo le domande di risarcimento del danno in caso di superamento del limite dei 36 mesi [49]. Ma che tipo e che misura di risarcimento? Forse la Corte potrebbe fornire qualche indicazione al riguardo, spingendo così i giudici ad adottare soluzioni sganciate dalla nozione tradizionale di risarcimento del danno ed aventi le caratteristiche richieste dall’ordinamento euro unitario. Vi è, però, chi va anche oltre, prospettando la possibilità di una pronuncia di carattere ancor più fortemente additivo: la Corte potrebbe sollevare d’ufficio “questioni di legittimità costituzionale delle norme ostative all’effettività della tutela abusiva – dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, cc. 1, 2 e 14 bis della l. n. [continua ..]
Vengo ora all’esame delle recenti modifiche legislative intervenute nella disciplina del contratto a tempo determinato del settore privato, per riesaminarne i margini della loro applicabilità al settore pubblico. Sul questo tema mi sono già espresso con riguardo alle innovazioni introdotte sia dalla legge Fornero che dal decreto Renzi-Poletti, e cioè il d.l. n. 34/2014, convertito in legge n. 78/2014 [52], ma ritengo utile riprendere la questione anche con riguardo al d.lgs. n. 81/2015, che abroga e sostituisce con norme parzialmente nuove il d.lgs. n. 368/2001, dato che ad ogni modifica della legge generale per il lavoro nell’impresa può mutare il margine di applicabilità delle norme speciali del lavoro pubblico. Come già anticipato, il punto nodale della questione era la possibilità di applicare al settore pubblico l’art. 5, comma 4 bis, d.lgs. n. 368/2001, che prevedeva la conversione giudiziale del rapporto in caso di sequela di contratti a termine con lo stesso lavoratore per lo svolgimento di mansioni equivalenti per più di 36 mesi. Per qualche tempo limiti precisi e rigorosi alla successione di contratti erano previsti anche per il settore pubblico (non più di tre anni nell’arco di cinque anni), ma nel 2008 la norma è stata sostituita con l’obbligo per le p.a. di relazionare sull’andamento del lavoro precario, con l’aggiunta, nel 2013, del diniego della retribuzione di risultato per i dirigenti responsabili di irregolarità. Ci si è chiesti se la disciplina del d.lgs. n. 165/2001, dopo questa modifica, presentasse una lacuna rispetto al fenomeno dell’abuso della successione di contratti, da regolare facendo applicazione della norma privatistica. La questione era molto delicata, perché la prevenzione e repressione di tale fenomeno costituisce uno degli obiettivi fondamentali della Direttiva 99/70 CEE sul contratto a tempo determinato. La risposta è stata spesso positiva, anche se frequentemente si è sostenuto che di fronte al divieto di conversione di cui al comma allora 2 dell’art. 36, dall’illegittima sequela di contratti poteva derivare non la stabilizzazione del rapporto, ma solo il risarcimento del danno. Per risolvere questo specifico problema si sarebbe dovuto guardare al sistema generale delle fonti regolatrici dei rapporti di lavoro [continua ..]
Vediamo ora se e come la situazione sia mutata dopo l’avvento del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81. Il nuovo decreto ha innanzitutto abrogato il d.lgs. n. 368/2001, e cioè la normativa di carattere generale sul contratto del settore privato, comprese le sue appendici in tema di decadenza per l’impugnazione (qui si è fatta solo pulizia, mantenendo l’essenza della norma sui termini) e sistema sanzionatorio, rinvenibili nell’art. 32, commi 3, lett. a), 5 e 6, legge n. 183/2010 e nell’art.1, comma 13, legge n. 92/2012. È curioso, però, che nell’abrogare il vecchio decreto, l’art. 55, comma 1, lett. b), decreto del giugno scorso abbia fatto salva la già ricordata disposizione che, a decorrere dal 2011 e fermi gli artt. 7 e 36 del d.lgs. n. 165/2001, limita la possibilità di avvalersi di personale a tempo determinato, convenzionato o in co.co.co. nella misura del 50% della spesa sostenuta per queste figure nel 2009. A mio avviso questa previsione di salvezza di una norma che vale solo per il settore pubblico ribadisce come anche per esso la normativa di carattere generale, ai sensi dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, rimanga quella privatistica, ma non può sfuggire come il sistema delle fonti in questo modo rimanga confuso e di difficile applicazione, anche perché i limiti finanziari relativi alle spese del personale possono mutare continuamente. L’abrogazione della normativa generale precedente si accompagna ad una nuova disciplina della materia prevista ex novo negli artt. dal 19 al 29 e 51 del d.lgs. n. 81/2015. L’art. 29, intitolato “esclusioni e discipline specifiche”, nel segnare i confini di applicabilità di queste norme, riprende quanto già disposto dall’art. 10 del d.lgs. n. 368/2001, confermando, per quanto qui interessa, l’esclusione del personale docente ed ATA della scuola e quello sanitario, ma contiene alcune rilevanti novità. La prima è costituita dalla mancata ripresa dell’esclusione del personale degli asili nido e delle scuole dell’infanzia degli enti locali, che in precedenza poteva essere assunto a tempo determinato in deroga alle norme del d.lgs. n. 368/2001, purché “nel rispetto del patto di stabilità e dei vincoli finanziari che limitano per gli enti locali la spesa per il personale e il regime delle [continua ..]
Alcune novità rispetto al decreto Renzi-Poletti rinvenibili nel decreto che attua il “Jobs Act” sono rilevanti per quanto concerne la loro applicazione al lavoro pubblico. La prima concerne la disciplina delle proroghe, laddove nell’art. 21 del nuovo decreto non vi è più il requisito concernente il tipo di attività svolta, che, come già detto, per il lavoro privato era contraddittorio rispetto all’eliminazione delle causali. Per i dipendenti pubblici questa innovazione comporta che ora la proroga è legittima anche se il dipendente viene inserito in un’attività o servizio dell’amministrazione diverso da quello in cui era stato inserito in origine, richiedendosi solo la permanenza di un’esigenza temporanea od occasionale. Una seconda attiene alla disciplina della successione dei contratti a tempo determinato. Il comma 4 bis, art. 5 dell’ormai abrogato d.lgs. n. 368/2001, sin da quando fu introdotto nel decreto stesso dalla legge n. 247/2007, attuativa del protocollo sul Welfare del 23 luglio 2007, circoscriveva il limite dei 36 mesi per la successione di contratti a termine tra le stesse parti a quelli stipulati per lo svolgimento di mansioni equivalenti. Ora il comma 2, art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 riferisce tale limite ai contratti stipulati per mansioni “di pari livello e categoria legale”. Il legislatore ha ritenuto, evidentemente, di dover tener conto della modifica contestualmente introdotta all’art. 2103 c.c. in tema di ius variandi. Ritengo, tuttavia, che questo adeguamento non fosse necessario, perché un conto sono i limiti posti al potere datoriale di mutare le mansioni ai suoi dipendenti, assunti a tempo indeterminato od a termine, altra questione, invece, è quella di limitare la successione dei contratti a tempo determinato tra le stesse parti. A mio avviso, ad ogni modo, se per tutti i lavoratori, sia a termine che a tempo indeterminato, questa novità amplia i poteri datoriali, per quanto concerne il limite alla ripetibilità dei rapporti a termine lo restringe un po’, perché, per interrompere la sequela di assunzioni rilevanti, non basta più un’assunzione per mansioni non professionalmente equivalenti a quelle effettuate nel corso del precedente contratto, ma occorre che quelle nuove siano ricomprese in un diverso livello e [continua ..]
Vengo ora all’ultimo punto. La legge 13 luglio 2015, n. 107 di riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione (la c.d. “buona scuola”), dopo aver disposto che le istituzioni scolastiche perseguono le loro finalità “attraverso l’organico dell’autonomia costituito da posti comuni, per il sostegno e per il potenziamento dell’offerta formativa” (art. 1, comma 63), organico ripartito prima tra le regioni e poi tra gli ambiti territoriali di quest’ultime (art. 1, commi 64-68), prevede che per far fronte ad esigenze di personale ulteriori ed inderogabili rispetto a quelle soddisfatte dal suddetto organico, dal 2016-17, è costituito annualmente a livello centrale “un ulteriore contingente di posti non facenti parte dell’organico dell’autonomia né disponibili, per il personale a tempo indeterminato, per operazioni di mobilità o assunzioni in ruolo. “Alla copertura di tali posti si provvede a valere sulle graduatorie di personale aspirante alla stipula di contratti a tempo determinato previste dalla normativa vigente ovvero mediante l’impiego di personale a tempo indeterminato con provvedimenti aventi efficacia limitatamente ad un solo anno scolastico” (art. 1, comma 69). Par di capire che se dopo l’attribuzione dell’organico agli ambiti territoriali ed alle singole istituzioni scolastiche sorgono inderogabili esigenze di personale, è possibile utilizzare una sorta di “posti di riserva”, accantonati a livello ministeriale, e proporne la copertura, per un anno, ai docenti a tempo indeterminato, ovvero agli aspiranti alla stipula di contratti a tempo determinato collocati nelle vigenti graduatorie. Per assenze fino a 10 giorni il dirigente scolastico può effettuare le sostituzioni con il personale dell’organico dell’autonomia (art. 1, comma 85). Ebbene, in seguito, la nuova legge, dopo aver introdotto il piano straordinario di assunzione dei docenti precari (art. 1, comma 95 ss.), dopo aver delineato il processo per l’entrata in ruolo a tempo indeterminato dei docenti e modificato la loro valutazione (art. 1, commi 109 ss.), dispone che a partire dal 1° settembre 2016, “i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale docente, educativo, amministrativo, tecnico ed ausiliario presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, per la copertura di posti [continua ..]
Come si vede, per una rilevante parte di lavoratori italiani il dilemma stabilità/precarietà è basato su un quadro normativo complicato, irrazionale, asistematico e di difficile applicazione. Il legislatore ha avuto tante occasioni per migliorarlo, ma non lo ha fatto. Le speranze di un assestamento intelligente è riposto sui prossimi interventi delle Corti superiori italiane ed euro unitarie. Per questa parte dell’ordinamento torna in auge una forte supplenza dei giudici che contraddice apertamente la sbandierata volontà politica di ridurne gli spazi di discrezionalità e la severità della legge sulla loro responsabilità.