Nel saggio si approfondisce il ruolo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in relazione al tema del contrasto al lavoro minorile, oggetto peraltro di alcuni tra i primi interventi regolativi dalla stessa messi in campo. Muovendo da alcuni dati statistici – e chiarendo anche la distinzione terminologica tra «child work» e «child labour», ampiamente utilizzata nella letteratura internazionale in materia – l’A. passa quindi ad analizzare le strategie di approccio alla questione seguite nel corso del tempo dall’OIL. A questo proposito si evidenzia come lo strumento tradizionale delle convenzioni internazionali sia stato, negli anni più recenti – caratterizzati dall’affermarsi della c.d. politica delle priorità, con cui si è puntato sui core labour standards e, quindi, sul decent work – affiancato da una numerosa serie di interventi sul campo, secondo una logica maggiormente pragmatica e “micro”.
The essay explores the role of the International Labour Organization in relation to the issue of combating child labour, which is also the subject of some of the first regulatory interventions implemented by it. Starting from some statistical data – and also clarifying the terminological distinction between «child work» and «child labour», widely used in the international literature on the subject – the A. then goes on to analyze the strategies of approach to the question followed over time by the ILO. In this regard, it is evident that the traditional instrument of international conventions, in recent years – characterized by the affirmation of the priority policy, which focused on core labor standards and, therefore, on decent work – has been supported by a large number of interventions in the field, according to a more pragmatic and “micro” logic.
Keywords: ILO - child labour
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1. Tra abolizionismo e pragmatismo: vecchie e nuove strategie per il contrasto al lavoro minorile - 2. L'evoluzione dell'approccio dell'OIL al tema del lavoro minorile, dalle prime Convenzioni ai programmi d'azione "sul campo" - 3. La convenzione n. 182/1999 contro le forme più intollerabili di sfruttamento - 4. Economia informale e lavoro minorile: quali strategie di contrasto? - 5. Il nuovo approccio pragmatico ed il programma IPEC - 6. Qualche osservazione conclusiva, guardando alla «politica delle priorità» ed al futuro - NOTE
Secondo dati resi noti dall’OIL di recente il numero dei minori tra i cinque ed i diciassette anni impiegati in attività lavorative può stimarsi, a livello mondiale, in 218 milioni [1]; tra questi giovani e giovanissimi lavoratori, ben 152 milioni – 88 milioni di bambini e 64 milioni di bambine (la metà dei quali di età tra compresa tra cinque ed undici anni) – sono vittime di forme di sfruttamento e, di questi ultimi, ben 72 milioni sono impiegati in lavori particolarmente pericolosi ed insalubri («hazardous works», secondo le definizioni della convenzione OIL n. 182/1999, v. infra, § 3). Lo sfruttamento del lavoro minorile si concentra principalmente nel settore agricolo, ove è impiegato il 71% dei minori, mentre il 17% lavora nei servizi e il 12% nel settore industriale (includendo in quest’ultimo anche le attività svolte nel settore minerario). Una correlazione importante si deve evidenziare tra situazioni di conflitto armato e presenza diffusa di lavoro minorile: nei Paesi dove si riscontrano le prime, la presenza del fenomeno è più alta, di ben il 77%, e del 50% è maggiore l’incidenza del lavoro pericoloso ed insalubre: non è casuale che in Africa, dove spesso si riscontrano tali condizioni, quasi un bambino su cinque sia vittima dello sfruttamento lavorativo [2]. A fronte di queste stime dell’Organizzazione, deve subito segnalarsi che fornire numeri precisi su questo fenomeno non è affatto semplice, a causa della difficoltà di raccogliere dati omogenei e completi; e ciò anche in ragione della presenza diffusa di situazioni di sfruttamento del lavoro minorile in molti contesti – nazionali e regionali – che sono caratterizzati da una significativa incidenza dell’economia sommersa e/o del lavoro nero o comunque informale [3]. Peraltro il lavoro minorile non è un fenomeno riferibile esclusivamente ai Paesi del Sud del mondo, ma si manifesta anche nei Paesi più industrializzati ed economicamente sviluppati [4], in particolare nei contesti, anche qui presenti, di marginalità sociale e povertà, nei quali trova spazio per diffondersi e prosperare. Pertanto, e ancora di più in un mondo globalizzato, le attività di prevenzione e contrasto continuano ad essere una sfida allo stesso tempo impegnativa ed irrinunciabile: [continua ..]
L’Organizzazione internazionale del lavoro, sin dalla sua istituzione, dopo la prima guerra mondiale, con il trattato di Versailles del 1919 [16], ha svolto un ruolo importante nella lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile. D’altra parte, già nella Costituzione di questa Organizzazione l’impegno per la protezione dei bambini è affermato solennemente, riconoscendo questo obiettivo come fondamentale per la ricerca della giustizia sociale e della pace universale. Per riassumere le diverse tappe evolutive delle politiche dell’OIL in materia, si possono identificare tre fasi distinte, caratterizzate da un progressivo sviluppo ed espansione degli strumenti e delle strategie di azione: in una prima fase, durata circa fino alla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, l’Organizzazione ha operato attraverso la preparazione di testi di Convenzioni e Raccomandazioni, intese a influenzare la regolamentazione da parte degli Stati membri del fenomeno, stabilendo principi minimi e standard di protezione, capaci di costituire un modello e uno stimolo per i legislatori nazionali; più tardi, e specialmente all’inizio degli anni Ottanta, il lavoro dei minori è diventato uno dei temi centrali del rapporto del direttore generale alla Conferenza internazionale del lavoro e, allo stesso tempo, si sono progressivamente valorizzate molteplici attività di sensibilizzazione in materia; infine, a partire dall’ultima decade del Novecento, le politiche dell’OIL si sono orientate in una direzione caratterizzata da un notevole grado di pragmatismo, che ha portato tra l’altro alla creazione del Programma internazionale per l’eradicazione del lavoro minorile (IPEC) nel 1992. Questo Programma, con il sostegno diretto all’azione “sul campo” degli Stati membri, ha contribuito, come vedremo, a dare nuovo slancio all’iniziativa dell’Organizzazione. Questi progressivi passaggi riflettono peraltro, in un certo senso, quella che è stata, a un livello più generale, l’evoluzione dello stesso diritto internazionale del lavoro. Infatti, se alle origini vi è stato lo sforzo di fissare standard comuni di trattamento per i rapporti di lavoro, l’attenzione si è in seguito spostata verso le modalità di effettiva implementazione di tali standard, in particolare in Paesi dal precario equilibrio [continua ..]
Il nuovo strumento convenzionale adottato dall’OIL alla fine della sua 87ª Conferenza, tenutasi nel giugno 1999, consta di sedici articoli, di cui i primi otto regolano gli aspetti sostanziali della materia in esame, mentre i seguenti stabiliscono norme procedurali relative alle modalità di ratifica, entrata in vigore, denuncia e revisione [25]. La convenzione n. 182 (accompagnata dalla Raccomandazione n. 190) è uno dei pochi strumenti di hard law che l’OIL è stata in grado di adottare negli ultimi vent’anni; abbandonando la questione dell’età minima di accesso al lavoro (che resta regolata dalla convenzione del 1973), muove piuttosto in conformità con le disposizioni dell’art. 32 della convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti dell’infanzia e con gli obiettivi già avviati, a partire dal 1992, con il programma IPEC di cui si dirà tra breve. Come notato da alcuni, la scelta di concentrarsi sull’eliminazione delle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile risulta non solo facilmente comprensibile (visto il carattere particolarmente odioso di tali fenomeni), ma anche strategica [26], in ragione dell’obiettivo dell’Organizzazione di cercare di ottenere rapidamente la ratifica e l’attuazione di questo strumento convenzionale da parte di un numero cospicuo di Stati membri. Nell’identificare i soggetti protetti, il testo convenzionale specifica che il termine «bambino» utilizzato («child» nel testo inglese) si riferisce ad ogni persona di età inferiore ai 18 anni, in linea con la nozione adottata dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini del 1989: viene così delimitato chiaramente il campo di applicazione, sgombrando il campo da possibili incertezze interpretative. Il nucleo centrale della nuova convenzione (con una categorizzazione più ampia rispetto al testo provvisorio adottato nel 1998 durante l’86ª Conferenza) è costituito dall’identificazione delle «peggiori forme di lavoro minorile»; come definite nell’art. 3, esse includono: in primo luogo, tutte le forme di schiavitù o simili ad essa, come la vendita o il traffico di minori, la schiavitù per debiti, il lavoro forzato od obbligatorio, incluso l’arruolamento in conflitti armati (disposizione, quest’ultima, che [continua ..]
Il fenomeno del lavoro minorile si intreccia in modo problematico con non poche dimensioni: salute, istruzione, sicurezza sociale, distribuzione del reddito e povertà (non solo economica, ma anche culturale, di famiglie e di territori); la relazione tra lo sfruttamento lavorativo dei minori ed il contesto dell’economia informale/irregolare/sommersa è particolarmente significativa, il che rende ancora più difficile la stima nel suo complesso del fenomeno qui considerato. Quest’ultimo, peraltro, non solo evidenzia un problema di sfruttamento a livello individuale, con riguardo ai singoli minori vittime, ma solleva anche una questione sociale più complessa, potendo il lavoro minorile essere considerato una sorta di “semaforo” della situazione economica, non solo di ciascun Paese, ma anche, all’interno degli Stati, delle diverse aree regionali. Più problematico infatti è il contesto economico, più spazio è lasciato alle dinamiche dell’economia informale o comunque sommersa, più numerose saranno le situazioni di sfruttamento lavorativo dei minori, in molti casi favorito da condizioni familiari e sociali difficili, che finiscono per rendere indispensabile il contributo (anche) dei bambini per l’integrazione del reddito familiare (molto spesso, peraltro, di mera sopravvivenza). Nel preambolo della recente Raccomandazione OIL n. 204/2015 [31], dedicata alla «Transizione dall’economia informale verso l’economia formale», si sottolinea che l’elevata incidenza dell’economia informale «costituisce una sfida importante per i diritti dei lavoratori, in particolare per i principi e per i diritti fondamentali sul lavoro, per la protezione sociale, per le condizioni di lavoro dignitoso, per lo sviluppo inclusivo e per la preminenza del diritto, e che l’economia informale ha un impatto negativo sullo sviluppo delle imprese sostenibili, sulle entrate pubbliche, sul campo d’azione dello Stato, specie per quanto riguarda le politiche economiche, sociali e ambientali, come pure sulla solidità delle istituzioni e la concorrenza leale sui mercati nazionali e internazionali». Esistono, come è ben noto, contesti territoriali ed interi settori economici che in molti Paesi sono coinvolti in modo rilevante in questo fenomeno, il quale può assumere aspetti anche molto diversi: a volte si [continua ..]
Le strategie per affrontare il problema del lavoro minorile possono essere caratterizzate in modo diverso ed implicare scelte di fondo anche radicalmente differenti; abbiamo già ricordato che si possono identificare almeno tre tipologie di approccio mediante le quali non solo le istituzioni pubbliche, ma anche le associazioni non governative, l’opinione pubblica ed i media si rapportano a questo fenomeno: quello strettamente abolizionista, quello pragmatico e, infine, quello di una possibile valorizzazione critica. Muovendo inizialmente da una prospettiva strettamente abolizionista, nel corso degli anni l’OIL ha sposato una linea di maggiore pragmatismo; consapevole delle difficoltà di implementazione e di effettività delle disposizioni della convenzione n. 138 e conscia del fatto che lo sfruttamento dei minori è spesso strettamente legato a situazioni di sottosviluppo economico ed arretratezza sociale, dagli anni Novanta del secolo scorso l’Organizzazione ha iniziato un’importante attività per combattere il fenomeno in questione con specifiche e mirate azioni sul campo, basate sul Programma internazionale per l’eradicazione del lavoro minorile (IPEC) [35]. Istituito nel 1992 grazie a una donazione del governo tedesco, questo Programma ha sin dall’inizio mirato a eliminare gradualmente il fenomeno del lavoro minorile, rafforzando la capacità dei Paesi di affrontare il problema e promuovendo un ampio movimento internazionale a sostegno di questa azione. Gli Stati finanziatori sono progressivamente aumentati e ad oggi l’IPEC ha operato in oltre ottanta Paesi, con azioni mirate, dirette a sostenere le iniziative nazionali di contrasto al fenomeno – prestando particolare attenzione alle forme di sfruttamento più gravi e intollerabili, identificate sulla base della convenzione 182/1999 – ed a creare strutture permanenti a questo scopo. I soggetti prioritari destinatari dell’intervento del Programma sono i minori che lavorano in condizioni di sostanziale schiavitù, quelli che lavorano in condizioni pericolose e quelli ritenuti particolarmente vulnerabili (ad esempio per l’età, come nel caso di minori lavoratori di età inferiore ai dodici anni); un focus specifico è dedicato alle bambine ed alle adolescenti, rispetto alle quali l’attenzione si concentra, in particolare, contro lo sfruttamento [continua ..]
Le iniziative per combattere lo sfruttamento del lavoro minorile, sebbene accomunate dall’obiettivo perseguito, possono assumere almeno tre diverse sembianze: quella dell’intervento regolativo, tanto a livello internazionale – con lo sviluppo di specifici strumenti convenzionali – quanto a livello nazionale; quella dell’azione sul campo, già svolta non solo dalle organizzazioni internazionali, ma spesso anche dall’apparato istituzionale dei singoli Paesi, oltre che da numerose ONG; e, infine, il profilo della consapevolezza del consumatore che, in un contesto di globalizzazione dei mercati, può cercare, con le sue scelte di consumo consapevole, di influire sul comportamento delle aziende, spingendole ad adottare codici di condotta, marchi sociali e, più in generale, a controllare gli investimenti effettuati nei Paesi in via di sviluppo [38]. Peraltro, la diffusione di questi ultimi strumenti, così come quella delle clausole sociali nel commercio internazionale, certamente utili (sebbene non sempre prive di “effetti collaterali”), non possono di per sé essere considerate la soluzione definitiva per il contrasto al lavoro minorile: è necessario, infatti, che a questi strumenti si aggiungano il sostegno alle famiglie per contrastare le situazioni di povertà e marginalità sociale, migliori condizioni di lavoro e di reddito per gli adulti ed azioni costruttive, a livello governativo, per ratificare gli standard internazionali di protezione del lavoro. Al fine di combattere efficacemente le situazioni di sfruttamento dei bambini e delle bambine e di non rassegnarsi di fronte allo spreco crudele di un enorme potenziale umano, risulta particolarmente necessario rafforzare la cooperazione internazionale per combattere la povertà (come sottolineato nella stessa convenzione n. 182), con meccanismi come la riduzione del debito estero dei Paesi più poveri e l’adozione di misure a sostegno dell’aumento della spesa per l’istruzione: infatti, la semplice espulsione dei minori dal sistema produttivo, senza l’adozione di tali misure di sostegno adeguate, può comportare – in situazioni di diffusa povertà – la loro attrazione in settori meno visibili dell’economia, non solo “semplicemente” sommersi, ma anche criminali, dove le condizioni di lavoro possono essere connotate, [continua ..]