Il contributo si propone di analizzare la fattispecie giuridica degli Enti del Terzo Settore, come delineata a seguito del processo riformatore avviato nel 2016. In particolare, l’Autrice analizza le norme definitorie soffermandosi, dapprima, su ciò che il legislatore non ricomprende nella categoria giuridica e, successivamente, sugli elementi costitutivi della figura. La disamina consente di riconoscere l’esistenza di una fattispecie giuridica complessa e articolata cui corrisponde una regolazione generale altrettanto variegata, di cui peraltro è segnalata la limitatezza sul versante lavoristico. L’Autrice, in-fine, pone in evidenza alcune criticità che emergono da una lettura complessiva del progetto riformatore anche alla luce dei principi costituzionali.
The paper aims to analyze the legal case of the third sector bodies, as outlined following the reform process started since 2016. In particular, the Author examines the defining provisions, firstly dwelling on what the legislator does not include in the legal category and, subsequently, on the constituent elements of the figure. What emerges is the existence of a complex legal case within a general regulation which is diversified but limited with regard to labour issues. Finally, the Author highlights some problems coming from an overall reading of the reform project, also in the light of the constitutional principles.
Keywords: Third sector – reform – legal case – boundaries – models.
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1. Il contesto - 2. La fattispecie giuridica degli Enti del Terzo Settore: i confini esterni … - 3. … e i confini interni; ovvero di una fattispecie a geometria variabile - 4. Fattispecie e disciplina (anche) dei rapporti di lavoro - 5. Conclusioni - NOTE
Una riflessione sulla fattispecie giuridica degli Enti del Terzo Settore (d’ora in avanti ETS) può essere adeguatamente collocata all’interno di una cornice concettuale che metta insieme il ruolo assunto dal Terzo Settore nell’assetto sociale ed economico con quello riservatogli dal sistema ordinamentale e, in particolare, dalla Carta Costituzionale. Per quanto quella del Terzo Settore sia «storia antica» [1], l’esperienza contemporanea ne restituisce un sintomatico protagonismo desumibile, ad esempio, da recenti indagini statistiche [2] rivelatrici di una incisiva crescita dell’area generale occupata dal no profit che investe il numero delle istituzioni e, altresì, le risorse umane impiegate (tanto retribuite quanto volontarie) e le risorse economiche disponibili. Le ragioni del protagonismo sociale ed economico (e quindi anche occupazionale) del Terzo Settore sono rinvenibili in una molteplicità di fattori, endogeni ed esogeni, di natura differente e di diverso impatto che hanno concorso, in misura variegata ma interagendo l’uno con l’altro, a decretare l’ascesa di questa specifica realtà. Così, in via meramente esemplificativa e guardando solo alle influenze esterne, è sufficiente mettere in fila talune tendenze, esaurite o ancora in fieri, che impattano sulla espansione del Terzo Settore: dall’aumento delle diseguaglianze e delle povertà alla trasformazione del welfare State; dalle ricadute della crisi economica e finanziaria alle evoluzioni dei modelli di sviluppo. Con maggior precisione, vale la pena rammentare lo stretto nesso intercorrente tra l’evoluzione del Terzo Settore e i mutamenti della stessa forma di Stato [3], nonché, di non minor rilievo, l’alternarsi nel corso del tempo di dissimili modelli economici sottesi alle medesime istituzioni del Terzo Settore [4]. Di certo, la progressiva crescita di quest’area è tra le motivazioni che hanno sospinto l’azione riformatrice messa in campo dal legislatore congiuntamente, anche in tal caso, ad altre pretese tra cui l’urgenza di metter ordine in un insieme di previsioni più somiglianti a un «groviglio» [5] normativo che ad un (micro)sistema, in quanto tale funzionale e organico. È dunque in questo contesto che prende forma quel [continua ..]
È noto che, per lungo tempo, il Terzo Settore è stato privo di una cornice definitoria, senza però che tale ingombrante assenza abbia inibito l’attività regolativa del legislatore; semmai, favorendo un lavorio interpretativo della dottrina destinato però, troppo spesso, ad inabissarsi davanti alla matrice descrittiva e pre-giuridica [13] della nozione «Terzo Settore». Di modo che, il riconoscimento del Terzo Settore quale categoria sociale non era supportato dall’individuazione di una categoria giuridica; o, per meglio dire, vi era la possibilità di riconoscere di volta in volta la costruzione di una «categoria normativa priva di una sua reale autonomia concettuale» [14]. La selezione dei soggetti cui applicare una data disciplina era rimessa ai singoli atti normativi con l’effetto, a tratti perverso, di alimentare l’esistenza di una nozione schizofrenica, e quindi impedire l’identificazione di una fattispecie giuridica, e al contempo favorire una insistente frammentazione regolativa. Ciò non ha impedito, tuttavia, che si procedesse ad un inquadramento degli enti operanti nel Terzo Settore, rispetto al quale appare quanto mai fondata l’osservazione secondo cui la questione definitoria del Terzo Settore non interroga il diritto privato (nel senso di disciplina dei rapporti tra privati), né il diritto amministrativo (inteso quale regolazione dei rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni), bensì il diritto costituzionale [15]. Sicché, la riconduzione degli ETS nel genus delle formazioni sociali [16] è affiancata dal diffuso riconoscimento di queste realtà quali soggetti di diritto privato nell’ambito, è bene anticiparlo, di un generale fenomeno di trasformazione dei soggetti privati [17]. Del resto, pur se a riforma avvenuta, la Corte costituzionale, riprendendo i suoi pregressi, esclude che il Terzo Settore possa configurarsi quale materia in senso stretto – potendosi le relative attività svolgersi sia in ambiti di competenza statale che in ambiti di competenza regionale – e rammenta che ad agire sono «soggetti privati che operano per scopi di utilità collettiva e di solidarietà sociale» [18]. Il vuoto normativo definitorio, come risaputo, è stato colmato dal legislatore della [continua ..]
Il Codice, dunque, interrompe, in maniera fragorosa, il silenzio definitorio in materia di ETS attraverso l’adozione di una nozione – contenuta nell’art. 4 ma integrata dalle previsioni degli artt. 5 e 6 – che “quasi stordisce” [31], senza ricalcare pedissequamente la formulazione contenuta nella legge delega (art.1 della legge 6 giugno 2016, n. 106). Al fine di individuare i tratti fisionomici degli ETS può essere utile servirsi del suggerimento di ragionare su tre elementi: chi fa (c.d. elemento soggettivo), cosa e come fa (c.d. elemento oggettivo) e perché lo fa (c.d. elemento teleologico) [32]. Così che quanto al profilo soggettivo il legislatore impiega una formula mista che fa seguire ad un’elencazione precisa (organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, enti filantropici, imprese sociali, reti associative, società di mutuo soccorso, associazioni riconosciute e non riconosciute e fondazioni) una clausola aperta in negativo, includente tutti gli altri enti privati purché non costituiti in forma societaria. Vale la pena rammentare che il Codice impone a tutti gli ETS l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo Settore; tale iscrizione, a ben vedere, assume valenza costitutiva [33] assurgendo a requisito essenziale della fattispecie. Per quanto concerne, invece, l’oggetto dell’attività degli ETS e le relative modalità di svolgimento, l’art. 4 va letto congiuntamente alle due disposizioni successive. Difatti, il legislatore precisa che questi Enti sono deputati a svolgere «in via esclusiva o principale […] una o più attività di interesse generale» (cosa fa), sotto forma «di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni e servizi» (come fa). È proprio sulla selezione delle attività dell’ente che si concentrano, in maniera diversa, gli artt. 5 e 6 del CTS attraverso, rispettivamente, la predisposizione di un catalogo di attività c.d. generali e, a seguire, la regolazione di possibili attività diverse (da quelle generali) svolte dall’ente [34]. A ben vedere, sul c.d. profilo definitorio oggettivo insistono varie criticità: dall’impiego della formula «attività di [continua ..]
Preso atto della sussistenza di una definizione complessa di ETS, è opportuno spostare l’attenzione sull’apparato regolativo approntato dal legislatore, anche con riferimento precipuo alla dimensione lavoristica, nella consapevolezza della tradizionale, e già più volte richiamata, frammentarietà che ha caratterizzato l’evoluzione e la disciplina del Terzo Settore. Il primo dato da porre in evidenza è che la normativa racchiusa nel CTS è tutt’altro che destinata ad esaurire la regolazione giuridica degli enti di riferimento; piuttosto, a seconda delle circostanze potrà essere integrata e/o sostituita da ulteriori previsioni. A riprova, è sufficiente richiamare l’art. 3 del Codice che affida a tre snelli, ma non per questo agevoli, commi l’individuazione della normativa applicabile. Una disposizione che, da un lato, cerca di ricondurre nel perimetro regolativo tracciato dal Codice anche quelle tipologie di enti dotate di una particolare disciplina (tutelate nella loro specificità dalla clausola che estende l’efficacia delle disposizioni codicistiche purché «non derogate e in quanto compatibili»); dall’altro lato, apre al Codice civile e alle disposizioni attuative legittimandone una funzione regolativa integrativa (limitata da un doppio inciso che circoscrive l’estensione a quanto non previsto dal legislatore riformatore e sempre nel rispetto del vincolo della compatibilità). Ancora, ulteriore dimostrazione di complessità regolativa, legata anche ma non univocamente alla complessità definitoria degli ETS, è ravvisabile inquadrando due precise tipologie di enti: l’impresa sociale e gli enti religiosi civilmente riconosciuti. La prima, espressamente ricompresa dal Codice tra gli ETS (art. 4, comma 1) gode di una disciplina ulteriore e specifica che si intreccia con quella codicistica [50]; così che, ad esempio, ai sensi dell’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 112/2017, nelle attività di interesse generale che devono caratterizzare l’azione delle imprese sociali è ricompreso anche l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Quanto ai secondi, al di là delle perplessità connesse all’impiego di una formula che reca in [continua ..]
A distanza oramai di più di due anni dall’entrata in vigore della riforma del Terzo Settore, è possibile svolgere qualche riflessione conclusiva anche in relazione alla corrispondenza o meno tra obiettivi prefissati ed esiti realizzati. Malgrado l’encomiabile tentativo di mettere ordine in un groviglio di fattispecie e disposizioni, vi è da condividere l’opinione diffusa secondo cui le perplessità sopravanzano le opportunità, posto che «il nuovo impianto normativo non è, in realtà, una riforma, bensì una forma» ovvero «un’opera di manutenzione straordinaria, priva però di un previo accurato progetto di restauro» [56]. Vale a dire che l’intento razionalizzatore che ha mosso la mano del legislatore non è stato supportato in modo adeguato da una effettiva azione riformatrice, nel senso etimologico del termine; esaurendosi, piuttosto, in un’opera di riordino e codificazione, non priva peraltro di limiti e incompletezze. Ben più deludente, poi, appare l’esito regolativo sul versante specifico della disciplina dei rapporti di lavoro e di quell’attività di volontariato che tanto spazio occupa nella esperienza degli ETS. Le scarne regole introdotte difatti – al di là di prescrizioni meritevoli quali, ad esempio, l’inserimento di norme perequative [57] o la secca alternativa tra svolgimento di prestazione lavorativa ed erogazione di attività di volontariato – rivelano l’assenza di un modello o comunque di un nuovo modello [58] su entrambi i versanti e danno corpo ad un intervento regolativo minimo. Piuttosto, dalla disamina complessiva del progetto riformatore emerge una propensione verso l’esaltazione dell’elemento dell’imprenditorialità degli enti [59] e ciò oltre la già menzionata contaminazione linguistica che ha portato nel Codice termini, espressioni e istituti propri del diritto societario. Invero, per quanto oramai il Terzo Settore si sia «definitivamente affrancato da una dimensione esclusivamente gratuita, erogativa, volontaria» o, per meglio dire, sia assodata «la compatibilità dell’impresa con il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» [60], è opportuno prestare dovuta attenzione [continua ..]