A partire dall’inizio del secolo il termine “welfare” ricorre con frequenza nella legislazione statale e regionale. Il significato attribuito al vocabolo è diversificato, mentre comune è la prospettiva con esso indicata: l’interazione tra differenti ambiti dell’assistenza sociale, della previdenza sociale e del diritto del lavoro. Il lavoro s’interroga sulle forme di interazione tra assistenza sociale e diritto del lavoro, a partire dalla condizionalità, fino a evidenziare un ambito di attività lavorative con funzione assistenziale.
From the beginning of the century the term “welfare” is frequently used in state and regional legislation. The meaning given to the word is diversified, whereas the perspective shown through it is common: the interaction between different areas of social assistance, social security and labour law. The work investigates the forms of interaction between social assistance and labour law, starting from conditionality, up to highlighting an area of working activities with a welfare function.
Articoli Correlati: welfare - assistenza sociale - lavoro
1. Welfare. La nuova frontiera del linguaggio legislativo fra incertezza semantica e trasformazioni del sistema di tutele - 2. La rinnovata centralità del lavoro come fattore di integrazione delle componenti del sistema di sicurezza sociale - 3. I ponti tra assistenza e lavoro: a) condizionalità e diritto del mercato del lavoro - 4. Segue: b) la condizionalità assistenziale e i lavori socialmente utili - 5. Oltre la condizionalità. Tracce di un lavoro 'assistenziale'? - NOTE
Con una norma del 2018, la Regione Trentino Alto Adige ha, tra l’altro, mutato il titolo di una legge del 1997: esso è ora «Interventi di promozione e sostegno del welfare complementare regionale» rispetto a «Interventi di previdenza e sanità integrativa a sostegno dei fondi pensione e dei fondi sanitari a base territoriale regione», peraltro ancora diverso dall’originario, in realtà riguardante soltanto la previdenza integrativa [1]. Assistiamo dunque al passaggio dal riferimento a interventi con una precisa caratterizzazione normativa ad una formula incentrata su un termine, welfare, invece non prescrittivo sul piano giuridico, quand’anche qualificato in senso complementare, con evidente allusione alle omonime forme pensionistiche, nonché regionale, data la specifica competenza statutaria [2]. Una simile dinamica è tanto più significativa se si considera la sostanziale assenza di innovazioni quanto all’oggetto disciplinato della legge del 1997 – che erano e restano i fondi pensione, appunto, complementari, di cui al d.lgs. n. 252/2005 –, semmai reso ora ancor più esclusivo, visto che con l’abrogazione del comma 3 dell’art. 3 è cancellato il riferimento, comunque previsto solo come possibilità, ad attività in favore di «fondi sanitari, fondi per la non autosufficienza e organismi simili» [3], che permane ormai solo nei limitati termini indicati dal comma 2-bis del medesimo art. 3. Sorge, dunque, l’interrogativo sul perché il senso o la portata di un simile cambiamento, ovvero, in ultima analisi, sul significato (giuridico) del termine welfare. Anzi, così declinato, l’interrogativo si impone a maggior ragione solo ad allargare l’orizzonte oltre il caso di specie e la singola regione, ma poi anche al livello statuale, perché è allora inevitabile riscontrare la tendenza della legislazione a ricorrere con sempre maggiore frequenza a quel termine. Al riguardo, già una sommaria ricerca su un motore di ricerca (normattiva.it) basta a evidenziare alcune interessanti indicazioni. La prima: la comparsa nel linguaggio legislativo del welfare è fenomeno ascrivibile in genere al nuovo secolo, ma con una forte accelerazione nell’ultimo decennio, a livello tanto statale [4] quanto regionale. Da quest’ultimo [continua ..]
Che l’art. 38 Cost. distingua l’assistenza sociale dalla previdenza sociale è un dato di tale evidenza che anche chi ha rintracciato nella Carta fondamentale l’opzione per un sistema giuridico di “sicurezza sociale”, dove la bipartizione non avrebbe ragion d’essere, ha dovuto considerare. Al riguardo, s’è detto che «distinguere non significa separare», ben potendo stare insieme la comune finalità di liberazione dal bisogno con declinazioni differenti dell’ambito e, soprattutto, dell’intensità della tutela, in ragione di un criterio meritocratico, quale il contributo che al benessere della collettività ha dato chi lavora rispetto a chi non può lavorare [30]. In ogni caso, è il lavoro a costituire il perno attorno a cui sono collocati i diritti riconosciuti dalla disposizione costituzionale. È la perdita temporanea o definitiva della capacità lavorativa, sottesa a ciascuna delle situazioni contemplate dal comma 2, ad attivare la tutela previdenziale, mentre è l’incapacità al lavoro, insieme alla mancanza di mezzi per vivere, il presupposto per il sorgere del diritto all’assistenza [31]. Infine è alla condizione di inabilità e di minorazione – per usare i termini della norma, in realtà desueti –, che il comma 3 collega il diritto «all’istruzione e all’avviamento professionale». Rimasto sempre nell’ombra rispetto ai precedenti, a questo comma la Corte Costituzionale ha tradizionalmente ancorato l’obbligo legale di assunzione dei lavoratori disabili [32], con ciò mostrando che le condizioni d’accesso al diritto presuppongono l’esistenza di una residua capacità lavorativa. Si osservi che l’inabilità è elemento comune a questo e al 1° comma, dove però se ne specifica il termine o l’oggetto, appunto, il lavoro. La loro combinazione, allora, intanto evidenzia l’organicità di una trama che dalla carenza totale di capacità lavorativa passa ad una potenzialità lavorativa, ancorché ridotta, per arrivare ad un lavoro che c’è o c’è stato. In tal modo, inoltre, conferma la centralità del luogo “lavoro” nel disegno della disposizione e, più in generale, costituzionale. Peraltro, se la [continua ..]
Il disegno complessivo appena delineato non lascia dubbi sul fatto che destinatario delle tutele dell’art. 38 Cost. fosse e sia la persona, cittadino o lavoratore, la cui capacità lavorativa risulti annullata o quantomeno ridotta per situazioni oggettive inerenti alla stessa [61]. Ciò presuppone che fuori da queste ipotesi sia il lavoro come relazione patrimonialmente rilevante la risposta al problema del reperimento dei mezzi di sostentamento prevista dal testo Costituzionale, che difatti specifica la tutela richiesta dall’art. 35 Cost. soprattutto in termini economico-retributivi e non solo negli artt. 36 e 37, ma anche nelle altre disposizioni lavoristiche dell’intero Titolo III [62], dove, comunque, resta preminente la posizione del lavoro subordinato, nonostante recenti aperture al lavoro autonomo, perfino nell’interpretazione dello stesso art. 4 Cost. [63]. Alla dottrina non è sfuggito che il «profilo della retribuzione sufficiente», insieme al principio di libertà sindacale, hanno delineato al Diritto del lavoro un orizzonte «che considera il lavoro come negazione della questione della povertà», come «alternativa allo stato di povertà». Si è però aggiunto che, a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, «a differenza del passato, la povertà è (entrata) dentro l’orizzonte del Diritto del lavoro» a causa sia del lavoro sommerso sia della precarietà sia del «lavoro senza contratto», mancante, cioè, del presupposto per l’applicazione delle tutele [64]. A cambiare non è stata tanto la risposta, ancora incentrata sul lavoro, quanto la sua modalità di concretizzazione in corrispondenza all’evoluzione normativa del mercato del lavoro di cui s’è detto. Senza nascondere i gravi problemi di effettività esistenti [65], di principio la definizione di un sistema di servizi e misure di politica attiva del lavoro consente di legare l’erogazione di prestazioni economiche all’attivazione da parte del soggetto assistito, accompagnato da un sostegno qualificato nella ricerca di un lavoro. È il noto tema della c.d. condizionalità [66], sul quale, peraltro, in questa sede, non ci si vuole soffermare se non per alcune brevi sottolineature. Innanzitutto, è da sottolineare come [continua ..]
Il quadro così delineato con l’effetto indicato non esauriscono ancora l’indagine. Occorre domandarsi se vi siano altre forme e modalità di raccordo fra assistenza sociale e lavoro. Una traccia per un avvio di risposta è presente nella disciplina del RdC, quando declina la condizionalità in termini, differenti da quelli finora visti. Al beneficiario, infatti, è richiesto, nell’ambito dell’uno o dell’altro patto, anche «di offrire la propria disponibilità per la partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni», peraltro, «in coerenza con il profilo professionale del beneficiario, con le competenze acquisite in ambito formale, non formale e informale, nonché in base agli interessi e alle propensioni» del beneficiario (art. 4, comma 15, d.l. n. 4/2019). Al nostro fine, poco rileva che la condizione consista, non già in un preciso facere, bensì nella più generica “disponibilità”: in effetti, la formula sconta l’effettiva attivazione dei progetti, tuttavia, ove ciò si verifichi, la mancata adesione agli stessi è sanzionata con la decadenza dal trattamento (7, comma 5, lett. d); il che chiarisce che il potenziale beneficiario è comunque obbligato, anche se solo eventuale è l’adempimento, genericamente individuato nella “partecipazione”. Ad interessare, invece, è proprio quest’ultima, perché pare difficile negare si sostanzi in un lavoro, almeno in senso oggettivo e fattuale, della cui connotazione giuridica e disciplina, salvo la durata oraria settimanale e il luogo di esecuzione, la legge, però, si disinteressa, rinviando semmai ad un atto ministeriale quanto a forme, caratteristiche e modalità, peraltro, dei “progetti”. Che non si tratti di un lavoro nel senso rilevante nelle ipotesi di condizionalità prima richiamante è desumibile dal fatto che, altrimenti ragionando, essa entrerebbe con esse in rotta di collisione. D’altra parte, l’utilità collettiva, predicata peraltro dei “progetti”, pare alludere e indirizzare verso forme di lavori socialmente utili (lsu), potendosi in tal senso richiamare anche l’assonanza [continua ..]
A questo punto, resta ancora da chiedersi se quella sopra raggiunta sia un’altra tappa o l’approdo finale del percorso. In altri termini se, e semmai in che termini, vi siano altri spazi di cittadinanza, oltre il modello della condizionalità, per un lavoro, per così dire, a valenza “assistenziale”, utilizzando questa espressione, non bella e probabilmente anche inadeguata, per indicare un’attività connotata dal perseguire le finalità di cui all’art. 38, commi 1 e 3, e, più in generale, riconducibili allo spettro delle politiche sociali. Una risposta compiuta richiederebbe approfondimenti qui non consentiti, perciò dovrà essere formulata in termini ricognitivi, procedendo, come in precedenza, dai dati legislativi e/o delle loro modalità applicative. Forse in modo non del tutto consapevole e, peraltro, a volte con ricadute effettuali difficili da individuare, tuttavia, la legislazione e/o, più in generale, alcuni atti normativi sia sopranazionali sia nazionali, anche regionali, non mancano di offrire indicazioni quantomeno nel senso dell’esistenza di un’esigenza siffatta e, poi, della difficoltà di trovare soluzioni appaganti. In tal senso, si può cominciare a osservare come, nel passaggio dalla disciplina del «lavoro accessorio» alle attuali «prestazioni di lavoro occasionali», non sia stata cancellata la regola per la quale il relativo compenso «è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato» [88], Regola, va aggiunto, da coniugare con l’originaria finalità sociale dello strumento, mai abbandonata, nonostante il suo progressivo allargamento funzionale [89] e riproposta anche per le prestazioni occasionali. Ad indicarlo sono, intanto, il favor che il comma 8 dell’art. 54-bis, d.l. n. 50/2017 esprime per «i titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità», i disoccupati, ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 150/2015, i «percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI) ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito», se non anche i «giovani con meno di venticinque anni di età» in formazione scolastica secondaria o universitaria. Ancora, la possibilità per le amministrazioni pubbliche di ricorrere a quelle prestazioni [continua ..]