Il saggio, introduttivo al tema dell’impresa illecita, si sofferma, nella prima parte, sul ruolo della contrattazione collettiva. Secondo l’Autore, il contratto collettivo nazionale è destinato a garantire i minimi di trattamento retributivo e normativo solo ai lavoratori appartenenti ai profili professionali più bassi; gli altri, invece, riescono a ottenere condizioni migliori per mezzo del contratto individuale. Per quanto riguarda poi i contratti collettivi “pirata”, questi non devo essere neppure considerati contratti collettivi perché stipulati da un soggetto che non può definirsi sindacale. Nella seconda parte dell’articolo, l’Autore critica l’utilità delle disposizioni normative che riconoscono alle imprese determinati benefici fiscali e contributivi in cambio dell’applicazione del contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative.
The essay, introductory to the theme of illicit enterprise, focuses, in the first part, on the role of collective bargaining. According to the author, the national collective agreement is intended to guarantee regulatory compliance and the minimum pay only for workers belonging to the lowest professional profiles; the others, on the other hand, manage to obtain better conditions through individual contracts. As for the "pirate" collective agreements, these must not even be considered collective agreements because they are stipulated by a subject that can not be called a trade union. In the second part of this essay, the author criticizes the regulatory provisions’ usefulness that recognize certain tax and social security benefits for companies in exchange with collective agreement’s application stipulated by most comparatively representative organizations.
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Nel proporre una riflessione sull’impresa illecita, non mi intendevo riferire né a quella solo dedita in modo abituale alla violazione delle disposizioni di protezione del prestatore di opere, né a quella collegata a organizzazioni criminali, sebbene l’uno e l’altro fenomeno siano presenti nel nostro ordinamento e, purtroppo, non siano rari. Se mai, vi è da sperare che la seconda variante del concetto, quella più grave, sia meno frequente della prima. Entrambi tali problemi meriterebbero uno studio, ma l’idea di questo sforzo congiunto di elaborazione critica è considerare un profilo specifico dell’illiceità, cioè la deliberata trasgressione a norme di tutela dei dipendenti per il vantaggio concorrenziale e per creare strutture competitive e in grado di soddisfare meglio l’interesse dei clienti, sebbene sia perseguito in modo illegittimo, appunto con un contenimento dei costi e dei prezzi, dovuto anche (e, talvolta, soltanto) al mancato rispetto delle norme di salvaguardia del lavoratore, soprattutto sul versante salariale. Il tema della retribuzione mette a confronto in modo evidente e, spesso, brutale l’aspettativa del prestatore di opere a ricavare la massima remunerazione del suo fare e quello dell’impresa all’incremento del profitto o, comunque, a evitare l’aumento delle spese e a concedere il compenso minore, purché funzionale al raggiungimento del suo disegno organizzativo. Molti anni fa, forse in modo profetico, di fronte a una struttura aziendale meccanizzata e non dominata dall’informatica, si avvertiva che, “prima dell’avvento della odierna civiltà industriale a tipo di produzione accentrata, la maggiore parte delle forme del lavoro era l’opposto dell’automatismo, e permetteva all’individuo di vivere ed esplicare le proprie capacità e trovare appagamento proprio nell’atto di lavorare. Fare che questi casi si estendano; fare che il lavoratore nell’atto del lavoro realizzi il suo vivere con il pieno esercizio delle sue capacità e sia presente con tutto se stesso nell’atto del lavoro e con non una pura quantità di forza o di attenzione, è l’esigenza che nasce da questa scoperta che il lavoratore è insomma un momento e un modo di vivere del soggetto, e non deve nell’atto stesso del suo realizzarsi trasformarsi nella negazione [continua ..]
Non vi è solo una scarsa effettività delle regole [17], poiché, prima di tutto, affiora una diversa lettura della loro base sociale e del contesto che le giustifica. Come si aggiunge, “per non oscurare il connotato di fondo del sistema delle relazioni industriali, come emerge dalle analisi (…) delle trasformazioni del diritto, possiamo dire che il modello (…) anticipa il futuro (…) e segue una tendenza già in atto in Europa” [18]. Non è tanto un problema di raccordo fra avvenire e passato [19], quanto di libertà dell’impresa dai vincoli comunitari, se così si intendono non quelli della Comunità europea, ma dei corpi sociali intermedi, come risorsa regolativa della nostra civiltà. Come si osserva, “la neutralizzazione del pubblico è uno degli effetti della inversione di marcia della tarda modernità che privatizza il ruolo (…) e conferisce spessore (…) regolativo al privato e all’infinita capacità normativa dei soggetti che contrattano. Con l’autonormazione raggiunta dai soggetti privati viene soppiantata l’eteroregolazione” [20]. Il centro propulsore della produzione normativa sarebbe l’impresa, vista come valore stabile dell’intero divenire sociale [21]. Si può discutere se sia così e, in tema di contratto collettivo, lo è in parte. Però, quanto meno, questo diretto raccordo, si potrebbe dire neo-illuminista, fra il cittadino e lo Stato, mette in crisi o fa scomparire i corpi intermedi, soprattutto nella loro azione ordinatrice del loro stesso esistere, delle condotte dei loro componenti e della più generale vita. Il vedere l’impresa come fattore ordinatore presuppone che si dia risposta alla contrapposizione prioritaria fra quella lecita e quella illecita. Se il punto di riferimento per la costruzione del moderno diritto del lavoro è l’impresa [22], anche nella consapevolezza delle ricadute sulle dinamiche competitive di qualsiasi disciplina incidente sull’organizzazione e sulle potenzialità commerciali della struttura produttiva, il tema denota una ambivalenza strutturale. Quanto più il sistema di protezione diventa complesso e idoneo a meglio realizzare sia la giustizia distributiva, sia quella commutativa, provocando un accrescimento dei costi del singolo soggetto [continua ..]
Alla pari del tradizionale “lavoro nero” [35], il contratto “pirata” dà una immagine significativa dell’impresa illecita, in grado di ridurre la retribuzione al di sotto dei minimi costituzionali e, per altro verso, di creare condizioni in apparenza ottimali (fino all’applicazione delle meritate sanzioni) per l’alterazione della concorrenza [36], molto più di quanto capiti con il più brutale ricorso al lavoro sommerso [37], se non altro perché, nelle sue manifestazioni pericolose e subdole, l’impresa illecita cerca di accreditare un minimo di normalità sociale. Una turbativa profonda all’attuazione dell’art. 36, comma 1, Cost. è data dai negozi “pirata”, una delle prassi deteriori del nostro sistema, accettata senza una adeguata sensibilità e proporzionate reazioni degli uffici ispettivi [38]. Se questi non cadono sempre in una colpevole connivenza, non manifestano comunque consapevolezza per la gravità del fenomeno. Esso non può essere stroncato (se mai ciò fosse possibile in assoluto, e vi è da dubitarne) solo nell’ambito delle controversie individuali, poiché, da un lato, non sempre i prestatori di opere hanno interesse (percependo in modo irregolare compensi aggiuntivi) e, dall’altro, l’effettività dell’art. 36, comma 1, Cost. non può essere garantita in via esclusiva dal giudizio, in specie in settori a forte intensità di manodopera, come nei mercati del facchinaggio e delle pulizie. In tali contesti, è un fattore di disordine preoccupante la presenza di accordi nazionali (o che pretendono di esserlo) con l’indicazione di minimi retributivi del tutto distonici da quelli delle ordinarie intese, concluse dalle maggiori associazioni sindacali. Tali convenzioni ricordano l’epopea della pirateria (non si saprebbe dire se quella sconfitta da Giulio Cesare o quella del Mare dei Caraibi), per la spregiudicata utilizzazione dell’aspetto esteriore del contratto di categoria, in carenza di un contenuto paragonabile. Le previsioni sui minimi sono così lontane da quelle realistiche da lasciare intendere che i lavoratori siano reclutati in forme illegittime in via programmata, con la promessa e con il pagamento di compensi integrativi rispetto a quelli indicati. In difetto, i prestatori di opere cercherebbero [continua ..]
Non mancano inutili grida manzoniane, come nella migliore tradizione del nostro diritto; per l’art. 10 della legge n. 30/2003, che sostituisce l’art. 3 del d.l. n. 71/1993, convertito dalla legge n. 151/1993, “per le imprese artigiane, commerciali e del turismo rientranti nella sfera di applicazione degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali e territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, il riconoscimento di benefici normativi e contributivi è subordinato all’integrale rispetto degli accordi e contratti citati, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” [49]. La disposizione è inutile. Sul fronte dell’applicazione dei contratti “pirata” non ha nessun significato, poiché riporta il problema al preteso e inesistente potere delle sole associazioni con maggiore rappresentatività comparativa di concludere accordi indicativi del minimo costituzionale, ai sensi dell’art. 36, comma 1, Cost. Non è così, poiché il canone non rinvia alla rappresentatività, ma al prudente apprezzamento del giudice, e a questi spetta stabilire se le clausole abbiano rilievo alla stregua dell’art. 36, comma 1, Cost. [50]. Ciò può accadere (e capita abbastanza spesso) a prescindere dalla rappresentatività degli stipulanti, poiché in talune categorie (a maggiore ragione in quelle un po’ marginali) contratti rilevanti ai fini dell’art. 36, comma 1, Cost. sono opera di associazioni senza una generale rappresentatività, ma animate dall’intento di regolare in modo adeguato e con spirito rivendicativo il settore e le sue dinamiche retributive. I negozi significativi ai fini dell’art. 36, comma 1, Cost. non presuppongono affatto la rappresentatività di chi li conclude, ma la sua buona fede e, cioè, l’esercizio dell’iniziativa sindacale, ai sensi dell’art. 39, comma 1, Cost. e senza gli sconfinamenti e le collusioni vietate dall’art. 17 St. lav. L’art. 10 della legge n. 30/2003 non ha alcun effetto nella repressione delle iniziative di “pirateria”, poiché esse sono di per sé vietate, alla stregua degli artt. 36 e 39 Cost. e dell’art. 17 St. lav.; se mai, il menzionato art. 10 crea dubbi non per i datori di lavoro [continua ..]
In una ricostruzione portata a dare ampio risalto ai cosiddetti accordi “pirata” e a vedere a ragione le potenzialità di alterazione del mercato e del suo ordinato sviluppo, si è espresso apprezzamento per tutte le ripetute disposizioni orientate ad attribuire benefici di ordine previdenziale o fiscale [57] ai datori di lavoro nel caso di applicazione di un contratto di categoria [58]. Tali norme si rivolgono alle imprese che applichino i minimi previsti dall’intesa nazionale, rilevante ai fini dell’art. 36, comma 1, Cost. Ormai, con l’eccezione del lavoro domestico e di pochi altri settori di nicchia, solo quello irregolare rifiuta il contratto di categoria; se questa equivalenza è imprecisa sul piano teorico (non esiste nessuna efficacia generale dell’accordo), ha un valore empirico, di illustrazione, non di qualificazione del sistema italiano. Ai fini dell’impostazione di razionali benefici contributivi e fiscali importa la prima prospettiva, non la seconda [59]. Il nesso fra applicazione dei contratti e il riconoscimento di vantaggi ai datori di lavoro, nel raccordo con il sistema pubblico, inteso in senso lato, non si spiega per lo stimolo indiretto all’efficacia generale dei negozi. Se avesse simili illusioni, il legislatore non avrebbe compreso i lineamenti attuali del problema e sottovaluterebbe l’impatto delle moderne tecnologie informatiche nell’amministrazione del personale, poiché impongono comunque il riferimento a un accordo collettivo. Le imprese che rifuggano dall’osservanza dei contratti nazionali non possono avere benefici contributivi e fiscali perché tale circostanza è un indice indiretto, ma realistico del ricorso a forme sleali di reclutamento dei prestatori di opere, o con l’assoluta illegittimità dei rapporti individuali, o con la più subdola alternativa, più pericolosa sul piano sociale, cioè la promozione di accordi “pirata” [60]. Non persuade la critica rivolta ad alcune disposizioni, per cui una formula imperniata sul rinvio ai contratti nazionali sarebbe “laconica” e potrebbe “legittimare l’accesso al beneficio da parte di imprenditori che si limitano ad applicare contratti (…) ‘pirata’, i quali prevedono standard di tutela (…) molto più bassi rispetto a quelli dei contratti [continua ..]
Richiamare l’attenzione sull’impresa illecita non vuole invitare il legislatore a nuove grida manzoniane, né è una sterile conferma della scarsa effettività del diritto del lavoro. Se mai, le analisi successive sono state il frutto di un invito agli Autori a chiedersi come tale ridotta effettività possa essere superata e se sia un destino ineliminabile o vi siano speranze di miglioramento, in specie nella prospettiva della responsabilità solidale, degli interventi ispettivi e degli atti di autodisciplina, come segno della consapevolezza del datore di lavoro sulla necessaria promozione della sua credibilità e della sua immagine. Del resto, lo stesso sistema delle certificazioni e non solo di quelle di responsabilità sociale suona come una espressione del desiderio aziendale di vedere riconosciuta in modo formale l’appartenenza a chi cerca di rispettare la legge, a fronte della rottura del sistema economico e della contemporanea e opposta rincorsa al contenimento dei costi a prezzo di qualunque compromesso giuridico e persino etico. Si è messo in discussione il tradizionale principio della responsabilità limitata delle strutture societarie, con un approccio meritevole di maggiore attenzione, poiché, troppo spesso, l’iniziativa giudiziale dei prestatori di opere porta l’impresa a procedure concorsuali, ma, se anche queste determinano la fine della sua attività, le stesse persone fisiche riprendono le loro iniziative, sovente con i medesimi metodi illeciti, senza soluzione di continuità. Come a ragione si è detto, occorre “un approfondimento sul tema della responsabilità limitata nelle società di capitali e dei suoi confini, volto a individuare eziologicamente i profili di responsabilità dei soggetti che, orbitando nell’organizzazione collettiva e determinandone l’attività e gli assetti di sviluppo, profittano abusivamente della (pretesa) alterità oggettiva dell’ente collettivo e perseguono finalità estranee a quelle fondanti l’azione collettiva” [76]. L’obbiettivo realistico dell’azione giudiziale dei prestatori di opere non è il soddisfacimento finale delle loro pretese, poiché di rado e forse mai l’impresa illecita è solvibile, per lo meno se il perseguimento dell’illegittimità è completo. Se [continua ..]