Il presente lavoro affronta, avendo riguardo sia al previgente testo dell’art. 342 c.p.c., sia a quello attualmente in vigore, il tema dell’ammissibilità del motivo di appello genericamente formulato. Il risultato dell’indagine si propone di dimostrare come, a differenza di quanto affermato dalla communis opinioin materia, esiste una certa differenza, percepibile sul piano pratico, tra i requisiti imposti dal rinnovato art. 342 c.p.c. e la precedente versione dello stesso.
This paper deals with the issue of the admissibility of a generic ground of appeal, having regard both to the previous text of the article 342 of the italian code of civil procedure, as well as the one currently in force. The result of the analysis should demonstrate that, despite the communis opinio, there is a certain difference between old and new rules stated by the mentioned article 342.
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1. Genericità dei motivi d'appello e decisione della Corte di seconde cure: è ultrapetizione? - 2. Alcune riflessioni sulla formulazione dei motivi d'appello - 3. Natura sostitutiva dell'appello e ravvisabilità, nel motivo d'appello genericamente formulato, di una domanda implicita di riforma della sentenza di primo grado. - 4. Brevi osservazioni conclusive sull'ipotesi in cui, in primo grado, sia stata proposta una domanda dipendente da quella principale oggetto di rigetto - NOTE
Una recente sentenza della Corte di Cassazione [1] fornisce l’occasione per effettuare alcune riflessioni attorno a un tema che, per i motivi che verranno tra breve illustrati, si rivela particolarmente attuale, specie nella prospettiva processual-civilista. Al fine di inquadrare la questione affrontata dalla Suprema Corte, appare utile illustrare l’intera vicenda giudiziaria, poi sfociata nel provvedimento menzionato. A seguito del licenziamento intimatogli in forma orale, un lavoratore dipendente ricorreva al Tribunale di Roma domandando la dichiarazione di inefficacia del licenziamento stesso, nonché la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti [2]. A fronte della pronuncia di rigetto emessa in primo grado, il lavoratore soccombente ricorreva in appello sollecitando «la considerazione, da parte del giudice del gravame, delle testimonianze in relazione alla prova dell’esistenza del rapporto e delle differenze retributive richieste, alla mancata considerazione delle prove documentali prodotte in ordine al pagamento di “fuori busta” tramite assegni e alla mancata pronuncia in ordine all’inquadramento del lavoratore». La Corte d’Appello di Roma, in accoglimento del ricorso, riformava la sentenza di primo grado dichiarando l’inefficacia del licenziamento verbale intimato e – in considerazione dell’accertata continuità del rapporto di lavoro – condannava il datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore. Ricorreva in cassazione il datore di lavoro che, per quanto qui interessa, censurava la decisione di seconde cure per vizio di ultrapetizione, sostenendo che, a fronte della mera sollecitazione formulata dal ricorrente di rivalutazione del materiale probatorio acquisito nel giudizio di primo grado, la Corte d’Appello si era spinta sino a pronunciare una statuizione in ordine alla legittimità del licenziamento. La Suprema Corte, con una decisione che appare condivisibile, rigetta per infondatezza il motivo proposto, per i motivi che verranno ripresi nel corso dei prossimi paragrafi. Appare evidente, come si diceva in apertura del presente scritto, come tale vicenda processuale si presti ad alcune riflessioni di più ampio respiro in tema di giudizio d’appello, particolarmente attuali alla luce della recente riformulazione degli artt. 342 e 434 c.p.c.
Il primo spunto di riflessione offerto dalla citata pronuncia attiene al tema della corretta formulazione del motivo d’appello. La peculiarità, per non dire l’intrinseca stranezza, della vicenda sin qui esposta risiede, infatti, in ciò, che nel momento in cui il lavoratore soccombente in primo grado ha proposto appello, ha proceduto ad una formulazione del relativo motivo senz’altro poco ortodossa, in quanto, appunto, limitata a una richiesta di rivalutazione del materiale probatorio prodotto in primo grado, senza accompagnare alla stessa una formale richiesta di riforma di quel capo di sentenza recante – all’esito di una, asseritamente scorretta, valutazione di quelle prove medesime – il rigetto della domanda proposta in primo grado. Questa prima considerazione si presta ad essere coltivata sotto una duplice prospettiva. In tema di formulazione dei motivi d’appello, ampiamente note sono le novità intervenute a seguito del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modificazioni, in l. 7 agosto 2012, n. 134, e della riscrittura nell’occasione operata dei summenzionati artt. 342 e 434 c.p.c.. Il nuovo dettato di tali norme, lo si ricorda, prevede che, a pena di inammissibilità, la motivazione dell’appello debba contenere «l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado», nonché «l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata». All’esito di un sostanziale contrasto interpretativo sussistente in giurisprudenza [3] – invero, protrattosi per un periodo di tempo non particolarmente esteso –, le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute a illustrare con assoluta precisione il significato di tali norme, chiarendo come debba essere formulato un motivo di appello per non incappare nella censura di inammissibilità sancitaex lege, con conseguente passaggio in giudicato, in parte qua, della decisione impugnata [4]. La Suprema Corte, in particolare, ha scelto di sposare l’indirizzo maggiormente liberale: da un lato, infatti, essa ha escluso che il motivo d’appello debba concretarsi in un c.d. progetto alternativo di sentenza, precisando, dall’altro lato, come sia sufficiente [continua ..]
Tali orientamenti, decisamente liberali, appaiono destinati a un sicuro superamento con la riforma degli artt. 342 e 434 c.p.c. e l’interpretazione fornita a dette norme I medesimi, peraltro, possono senz’altro aiutare a capire come, nella fattispecie che ha offerto lo spunto alle presenti riflessioni, la Corte d’Appello non abbia giudicato inammissibile l’appello proposto per difetto del requisito della specificità dei relativi motivi: è infatti presente una richiesta di riesame del materiale probatorio acquisito – elemento, come detto in chiusura del precedente paragrafo, di per sé ritenuto sufficiente ai fini de quibus – dalla quale, peraltro, appare altresì possibile evincere la volontà del ricorrente di ottenere la riforma della decisione assunta sulla base delle prove medesime. Al contempo, appare opportuno rilevare come la fattispecie tratteggiata appaia un felice esempio di come – a dispetto delle opinioni tendenti a svalutare, a volte del tutto, la portata innovativa della riforma [10] –, sussista un novero di ipotesi in cui la rinnovata veste assunta dai motivi d’appello ha, effettivamente, una incidenza sul terreno pratico: come appena visto, infatti, è stato ritenuto ammissibile un atto d’appello, che, sullo sfondo della nuova normativa, molto probabilmente non avrebbe superato detto vaglio, mancando lo stesso, soprattutto, dell’indicazione delle ragioni del dissenso in relazione alle questioni censurate e, dunque, del c.d. percorso logico-argomentativo alternativo proposto. Il concetto espresso in apertura del presente paragrafo – in particolare laddove si è affermata la possibilità di desumere dalla censura formulata la volontà del ricorrente di ottenere la riforma del provvedimento di primo grado –, può trovare una prima concretizzazione in un passaggio argomentativo compiuto dalla sentenza citata, che appare senz’altro utile riportare. La Suprema Corte, infatti, fa procedere la motivazione dell’infondatezza dell’impugnazione proposta dall’affermazione secondo cui «il ricorso in appello [rinnova] l’oggetto della domanda originaria così come determinato nel ricorso» introduttivo della causa in primo grado. Anzitutto, tale passaggio richiede una immediata precisazione. È opportuno chiarire, infatti, come con tali [continua ..]
Quanto appena affermato in ordine alla impossibilità di ammettere un atto di appello con motivo genericamente formulato laddove in primo grado sia stata avanzata una pluralità di domande non vale, peraltro, come già in precedenza lasciato intendere, laddove l’ulteriore domanda proposta in detta sede sia legata da un vincolo di dipendenza a quella principale. Un esempio concreto per meglio comprendere quanto si è appena sostenuto, di nuovo, è offerto dalla sentenza più volte analizzata nel corso del presente lavoro, originata da una vicenda in cui, lo si ricorda, il lavoratore ricorrente aveva avanzato la domanda di dichiarazione di inefficacia del licenziamento intimatogli verbalmente e, in via dipendente, la domanda di risarcimento del danno subito. Quest’ultima richiesta, a seguito del rigetto pronunciato dal tribunale sulla domanda principale, è stata evidentemente oggetto di rituale assorbimento: su di essa, cioè, il tribunale non si è in alcun modo pronunciato, avendo provveduto a rigettare la domanda ad essa pregiudiziale. A tal riguardo, è noto come si affermi la necessità per l’appellante di svolgere attività di mera riproposizione, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., della domanda dipendente oggetto di rituale assorbimento [15]; tuttavia, in presenza di vincoli di pregiudizialità-dipendenza si ritiene che tale onere di riproposizione venga meno [16]. La ricostruzione operata dalla Corte d’Appello di una domanda implicita di riforma del capo pregiudiziale avanzata dal lavoratore ricorrente, dunque, ha fatalmente comportato anche la devoluzione al giudice di seconde cure del potere-dovere di decidere altresì sulla domanda dipendente, pur in assenza di una formale iniziativa di riproposizione ex art. 346 c.p.c., e in virtù del rapporto di connessione esistente tra i due capi di sentenza.