L’articolo tratta della questione della responsabilità dell’Ente previdenziale per il danno causato dalla violazione del legittimo affidamento ingenerato nell’assicurato da erronee informazioni fornite dall’Ente stesso. Ricostruiti gli elementi distintivi dell’istituto del legittimo affidamento, come applicato sia nell’ordinamento giuridico amministrativo e nell’ordinamento europeo, l’articolo si concentra sull’applicazione di tale istituto in materia previdenziale, analizzando l’evoluzione giurisprudenziale che ha ravvisato nella responsabilità dell’Ente previdenziale per le erronee informazioni fornite una ipotesi di responsabilità contrattuale. Quindi, l’Autore rileva che, attualmente, i principi affermati dalla Suprema Corte non limitano più la responsabilità civile degli Enti previdenziali al solo caso dell’errore contenuto in una determinata e tassativa tipologia di provvedimenti (quali gli estratti contributivi che certificano, su richiesta, la posizione contributiva complessiva dell’assicurato), potendo la responsabilità risarcitoria fondarsi su provvedimenti ed atti diversi, laddove essi siano inficiati da errore addebitabile all’Istituto ed abbiano comportato un errore scusabile da parte dell’assicurato; tale approdo, pur rischiando di creare una sorta di giustizia equitativa disancorata dal dato normativo, ha il pregio di essere pienamente coerente con la centralità assunta nell’ordinamento previdenziale dal principio di buona fede.
The article deals with the question of the liability of the Social Security Institution for the damage caused by the violation of the legitimate expectation generated by the erroneous information provided by the Institution itself. After rebuilding the distinctive features of the “legitimate expectation”, as applied both in the administrative legal system and in the European legal system, the article focuses on the application of this principle of law in matters of social security, analyzing the jurisprudential evolution that has identified responsibility of the Social Security Institution for the erroneous information as a case of contractual responsibility. Therefore, the author notes that, actually, principles of law affirmed by the Supreme Court no longer limit the civil liability of Social Security Institutions to the sole case of the error contained in a specific and mandatory type of provisions (such as the contributive statements certifying, on request, the contributory position total of the insured), being the compensation liability based on different measures and acts, in the case of they are affected by an error attributable to the Institute and have resulted in an excusable error of the insured; this view, while risking to create a sort of equitable justice unmoored by the normative data, has the merit of being fully consistent with the centrality assumed in the social security system by the principle of good faith.
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La questione della responsabilità dell’Ente previdenziale per il danno derivante da violazione del legittimo affidamento ingenerato nell’assicurato da erronee informazioni assume preminente interesse nel vigente ordinamento giuridico. Ed invero, per effetto sia dell’attuale tendenziale mancanza di stabilità e continuità dei rapporti di lavoro sia delle stratificazioni normative che hanno interessato la materia previdenziale, i rapporti previdenziali dei lavoratori si caratterizzano non solo per essere sempre più frammentati e dislocati tra varie gestioni previdenziali, ma anche per essere disciplinati da normative spesso molto complesse, con conseguente sacrificio della certezza e dell’effettività della tutela previdenziale. In questo quadro, le informazioni rese dagli Enti previdenziali in ordine alla posizione previdenziale degli assicurati acquistano fondamentale importanza per gli assicurati stessi, i quali, proprio sulla base di tali informazioni, possono adottare decisioni fondamentali sia di carattere previdenziale che di carattere professionale. Sul tema, è tornata a pronunciarsi la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza del 3 ottobre 2017, n. 23050 – per mezzo della quale è stata riconosciuta la responsabilità dell’INPS nella determinazione del danno al lavoratore ed è stato affermato che l’Istituto debba rispondere del danno derivato da un proprio errore di comunicazione, a titolo di responsabilità contrattuale, salvo che provi che la causa dell’errore sia esterna alla sua sfera di controllo o comunque che l’errore sia stato inevitabile anche con la dovuta diligenza – e con la sentenza del 30 luglio 2018, n. 2008, per mezzo della quale è stata riconosciuta la responsabilità dell’INPS, sempre di natura contrattuale, per i danni derivanti all’assicurato dall’iniziale accoglimento di domande di rendita vitalizia con riscatto contributivo, successivamente annullate d’ufficio dall’Ente. I profili di interesse promananti dalle citate pronunce sono innumerevoli e si inscrivono in un più ampio e complesso panorama istituzionale e normativo. Pertanto, è opportuno individuare i confini entro i quali si collocano i principi affermati dalla Suprema Corte e, in particolare, approfondire le questioni ermeneutiche sottese ad essi.
Nell’analisi dell’evoluzione dei rapporti che intercorrono tra assicurato ed Ente previdenziale, con tutti gli effetti che da essi derivano, non si può prescindere da un attento studio della qualificazione ontologica dell’Ente stesso. Come noto, nell’ordinamento italiano vige attualmente il principio del pluralismo della Pubblica Amministrazione, in virtù del quale allo Stato si affiancano altri soggetti, dotati, oltre che di capacità giuridica privata, anche di capacità giuridica pubblica, che perseguono fini di interesse pubblico [1]. Dalla qualificazione di un Ente come pubblico derivano rilevanti conseguenze sul piano della disciplina, atteso che l’attività di un Ente pubblico è assoggettata alle regole sul procedimento amministrativo e, al contempo, è limitata da controlli di varia natura, finalizzati a valutare la legittimità dell’Ente stesso e la rispondenza all’interesse pubblico. A fare da contraltare alle limitazioni sopra esposte sono i privilegi che derivano dalla qualificazione pubblica dell’Ente, in virtù della sua natura di Ente deputato alla cura di interessi pubblici, meritevole pertanto di uno statuto speciale di favore; il corollario di tale assunto è che gli Enti pubblici dispongono di poteri pubblici di supremazia nei rapporti con i terzi. Nell’ambito di questa cornice, si colloca anche l’attività dell’INPS, generalmente inteso quale Ente pubblico annoverabile nella categoria dottrinale delle istituzioni. Si tratta di un dettaglio rilevante, atteso che siffatta qualificazione giuridica, come noto, determina specifici effetti con riferimento ai rapporti intersoggettivi tra Ente ed assicurati, i quali, se inizialmente erano molto influenzati dal modello fortemente gerarchico-piramidale tipico dello Stato liberale ottocentesco, sono oggi meno rigidi e squilibrati, in ossequio al più moderno modello dello Stato di diritto. In quest’ottica, vengono maggiormente valorizzati gli obblighi ed i correlati diritti informativi, derivanti dal rapporto che trova originario fondamento nella legge.
In linea generale, è ormai consolidata la tutela sul piano della responsabilità civile del c.d. “diritto all’informazione”. A maggiore specificazione, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha condotto alla formulazione di una originaria distinzione: ove sussiste un dovere legale d’informazione, l’illecito si concretizza nell’omessa informazione; nel caso in cui tale dovere non sussista, l’illecito è invece riscontrabile nell’informazione non veritiera idonea a ledere rilevanti interessi altrui [2]. In sostanza, il dovere di informazione si manifesta quale declinazione della diligenza, a cui è tenuto ogni soggetto agente al fine di evitare un danno a terzi. A titolo esemplificativo, chi genera un pericolo per persone o cose deve adoperarsi diligentemente per salvaguardare i terzi contro suddetto pericolo anche mediante un’adeguata informazione. Sono ormai numerose le ipotesi annoverabili nell’ambito dei doveri legali di informazione, con particolare riguardo al campo delle professioni intellettuali, dei consumatori e della intermediazione finanziaria. Al contempo, non sono più trascurate le ipotesi di responsabilità di chi non è legalmente tenuto ad informare, ma può essere responsabile per l’inesattezza dell’informazione. Alla luce di tali precipitati, è bene evidenziare come questi costituiscano sviluppi pienamente coerenti con i più generali principi che regolano l’ordinamento e, in particolare, con il noto principio in virtù del quale il volere interno del soggetto non ha rilevanza giuridica fino a quando non si sia manifestato all’esterno mediante una dichiarazione idonea ad ingenerare l’altrui affidamento. Ciò significa che il dovere di informazione (ovvero di corretta informazione) è profondamente radicato nella teoria dell’affidamento, ai sensi della quale il soggetto è vincolato dalla dichiarazione, quando, a prescindere dalla colpevolezza della sua condotta, la dichiarazione abbia ingenerato nei terzi la non colposa convinzione della rispondenza alla volontà della dichiarazione percepita, con conseguente produzione dell’effetto giuridico annunciato [3]. In questa prospettiva, assume rilievo la definizione stessa di affidamento, che, in termini generici, indica la garanzia e la fiducia, [continua ..]
La difficoltà di far acquisire la cittadinanza al principio di buona fede nel diritto amministrativo – ispirato ad una concezione autoritaria in cui l’obbligo di perseguire l’interesse pubblico non solo rendeva irrilevante e comunque implicito l’agire secondo correttezza ma finiva per ritenere esclusivamente subordinate le aspettative del privato [17] – ha fatto sì che l’istituto dell’affidamento fosse considerato per molto tempo tradizionalmente di pertinenza quasi esclusiva del diritto civile [18]. Con l’abbandono della concezione secondo cui l’interesse pubblico doveva considerarsi solamente quello sancito dalla norma di legge e l’accoglimento della tesi secondo cui tale interesse pubblico deve emergere dal raffronto tra tutti gli interessi coinvolti dall’azione amministrativa, a sua volta tesa al rispetto del dovere di collaborazione con i soggetti privati, anche la buona fede finisce per divenire un principio che deve orientare ogni attività e, pertanto, applicabile anche nell’ambito dell’azione amministrativa [19]. Piena espressione di ciò si ha con la l. n. 241/1990, che prevede una forma di tutela del principio di tutela del legittimo affidamento con l’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (secondo cui “il provvedimento amministrativo illegittimo … può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici … e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”), per mezzo del quale il Legislatore ha inteso impedire l’annullamento di provvedimenti amministrativi favorevoli al privato ogniqualvolta, per il decorso del tempo, si siano consolidate situazioni giuridiche e si siano realizzati effetti positivi tali da far ritenere ingenerato, in capo ai destinatari dei provvedimenti stessi, un legittimo affidamento. In tal modo, la tutela dell’affidamento diviene una sorta di principio dell’azione amministrativa, imponendo la tutela di situazioni di vantaggio assicurate da uno specifico provvedimento della Pubblica Amministrazione, le quali, una volta [continua ..]
Una volta qualificato l’Ente previdenziale come soggetto che persegue un interesse pubblico, il principio del legittimo affidamento ha assunto rilievo anche nell’ambito del diritto della previdenza sociale, divenendo un principio che l’Ente stesso, nell’esercizio della propria attività, deve tenere presente. In quest’ottica, fondamentale è il ruolo della giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità, le cui decisioni si ispirano ad un interessante contemperamento tra il principio del legittimo affidamento e gli interessi pubblici, rappresentati, ad esempio, dalla necessità di rispettare l’equilibrio di bilancio e la stabilità delle gestioni previdenziali. Ad esempio, in ordine alla questione della possibilità di ridurre i trattamenti pensionistici in corso di erogazione, con un orientamento piuttosto consolidato, la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato che, sebbene non esista nel nostro ordinamento un principio di intangibilità del trattamento pensionistico e sebbene non sia interdetto al Legislatore di emanare disposizioni che, al fine di garantire l’equilibrio finanziario dell’Ente, vengano a modificare anche il quantumdel trattamento in corso di erogazione, le norme sopravvenute non possono oltrepassare il limite della “ragionevolezza”, intesa come affidamento dell’assicurato in una consistenza della pensione [26]. In materia, del resto, la giurisprudenza della Corte costituzionale è costante nel ritenere illegittima la norma che violi l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, quale elemento ritenuto espressamente essenziale dello Stato di diritto [27]. In tale modo, la giurisprudenza, pur affermando la rilevanza del principio del legittimo affidamento, non conferisce una precisa collocazione a tale principio, lasciando all’interprete il compito di effettuare, volta per volta, un giudizio di ragionevolezza circa la lesività dell’atto potenzialmente lesivo. Il medesimo margine di discrezionalità nell’applicazione del legittimo affidamento in materia previdenziale, invero, pare essere lasciato all’interprete proprio dal Legislatore. Al riguardo, può farsi riferimento all’art. 3, comma 12, l. n. 335/1995, il quale, nella formulazione introdotta dalla Finanziaria per il 2007, ha sì previsto che gli Enti [continua ..]
Orbene, alla luce dell’analisi sopra compiuta con riferimento all’inquadramento teorico del principio del legittimo affidamento, è ora opportuno soffermarsi sugli ulteriori risvolti ermeneutici ed applicativi connessi alla fattispecie appena descritta. A tal proposito, giova sin da subito soffermarsi sull’evoluzione giurisprudenziale in materia, affermatasi principalmente in fattispecie che hanno coinvolto lavoratori privati. Difatti, copiose sono state in passato le pronunce in materia previdenziale con riferimento a fattispecie in cui l’errore dell’Istituto è consistito nella indicazione in eccesso dei contributi previdenziali accreditati, tale per cui l’assicurato, lavoratore privato, facendo affidamento sul perfezionamento del diritto a pensione, è stato indotto a recedere dal rapporto di lavoro ed a presentare la domanda di pensione senza averne ancora maturato effettivamente i requisiti.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato fino alla metà degli anni ’90 (rispetto al quale si registrano pronunce conformi anche più recenti), la responsabilità dell’INPS in fattispecie come quella in esame dovrebbe qualificarsi come extracontrattuale [28]. Tale orientamento prende le mosse dall’interpretazione, sostenuta da autorevole dottrina [29], in virtù della quale, atteso che l’Istituto previdenziale non avrebbe alcun obbligo di informazione nei confronti degli assicurati, i cosiddetti estratti contributivi da esso prodotti non avrebbero né una funzione costitutiva né una funzione probatoria della posizione contributiva dell’assicurato, bensì una mera funzione di accertamento dei requisiti necessari al conseguimento del diritto a pensione [30]. La qualificazione come extracontrattuale della responsabilità in esame impone, in primo luogo, che l’assicurato che agisca per ottenere la condanna dell’Istituto previdenziale al risarcimento dei danni causati dalle erronee informazioni ricevute debba provare, secondo gli ordinari principi vigenti in materia di responsabilità per fatto illecito, non solo il danno subito, il suo ammontare ed il nesso di causalità, ma anche la colpa o il dolo dell’Ente autore del danno, risultando così gravato dalla difficoltà di provare l’effettiva riconducibilità dell’errore alla negligenza di tale Ente. Inoltre, dalla qualificazione come extracontrattuale della responsabilità in esame deriva che l’azione dell’assicurato sia assoggettata al più breve termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. e che la competenza sia quella ordinaria e non quella ex art. 444 c.p.c., trattandosi di controversia che attiene all’applicazione dell’art. 2043 c.c. e non già al riconoscimento di una prestazione previdenziale [31].
Nel corso degli anni ’90, si è tuttavia assistito ad un graduale mutamente dell’approccio interpretativo alla materia e, con una sentenza emanata nel 1992 [32], successivamente confermata da diverse ulteriori pronunce [33], la Suprema Corte, accogliendo un indirizzo ermeneutico radicalmente opposto rispetto a quello sopra descritto, ha qualificato come contrattuale la responsabilità degli Istituti previdenziali per i danni causati da informazioni erronee fornite agli assicurati, assoggettandola quindi alla disciplina generale di cui agli artt. 1218 c.c. ss. [34] In particolare, secondo la Suprema Corte, la responsabilità dell’INPS che ha fornito all’assicurato informazioni erronee sulla sua posizione contributiva, con ciò inducendolo a dimettersi prima della effettiva maturazione del diritto a pensione, deve essere considerata di tipo contrattuale, coinvolgendo la violazione, da parte dell’Istituto, di uno specifico obbligo di comportamento, consistente nell’uso della dovuta diligenza e professionalità nello svolgimento di operazioni amministrative gravante sull’Ente (parte del rapporto assicurativo) [35]. Secondo tale orientamento, il fondamento di tale posizione risiederebbe nell’art. 54 della l. 9 marzo 1989, n. 88, (secondo cui “è fatto obbligo agli agenti previdenziali di comunicare, a richiesta esclusiva dell’interessato o di chi ne sia da questi legalmente delegato o ne abbia diritto ai sensi di legge, i dati richiesti relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica. La comunicazione da parte degli enti previdenziali ha valore certificativo della situazione in essa descritta”), che, imponendo all’Ente previdenziale di fornire all’assicurato tutti i dati utili per la ricognizione della singola posizione previdenziale rilasciando all’uopo una comunicazione con valore certificativo della situazione in essa descritta, imporrebbe di qualificare come non diligente, e pertanto fonte di responsabilità risarcitoria, ogni violazione di tale obbligo di informazione [36]. L’esistenza di tale obbligo sarebbe altresì desumibile dall’ordito normativo presente nel r.d. 28 agosto 1924, n. 1422 ed, in particolare, dal tenore del terzo comma dell’art. 78, il quale prevede l’obbligo dell’Istituto di informare l’assicurato circa la sua [continua ..]
Pur dovendosi considerare superato ogni contrasto interpretativo in ordine alla qualificazione della responsabilità dell’Ente previdenziale per le erronee comunicazione fornite, è certamente tuttora vivo il dibattito relativo alle condizioni ed ai requisiti necessari per poter accertare tale responsabilità. Per lungo tempo, la giurisprudenza ha assunto un approccio ermeneutico aderente al dato letterale del sopra analizzato art. 54 della l. n. 88/1989, ritenendo sussistente la responsabilità dell’Ente previdenziale che abbia fornito erronee comunicazioni sulla posizione contributiva solamente laddove tali comunicazioni fossero avvenute sulla base di una specifica richiesta dell’interessato, senza la quale – a detta della Cassazione – mancherebbe il presupposto espressamente previsto dalla suddetta disposizione (che appunto fa riferimento all’obbligo dell’Ente di comunicare i dati “a richiesta esclusiva dell’interessato o di chi ne sia da questi legalmente delegato o ne abbia diritto ai sensi di legge”) e, quindi, ci si troverebbe al di fuori della fattispecie prevista dalla legge [44]. Ebbene, si tratta di un approccio sicuramente di tipo restrittivo, in quanto prevede che la responsabilità dell’Ente previdenziale sia condizionata alla circostanza che le comunicazioni dell’Ente previdenziale siano inserite nell’ambito di un procedimento regolato dalla legge (art. 54 della l. n. 88/1989), facendo così assumere alla pendenza di tale procedimento la funzione di requisito indefettibile per poter attribuire a tali comunicazioni provenienza certa e, quindi, la funzione di requisito costitutivo della responsabilità stessa. Secondo tale approccio di tipo restrittivo, inoltre, la responsabilità dell’Ente previdenziale dovrebbe escludersi anche nel caso in cui nel giudizio emergano elementi che avrebbero dovuto condurre l’assicurato ad approfondire i dati attestati nel documenti e, quindi, ad avvedersi, adoprando l’ordinaria diligenza, di eventuali errori [45]. Tra tali elementi, è stata talvolta considerata rilevante la circostanza che negli estratti contributivi sia indicata espressamente la riserva di ulteriore verifica della correttezza dei dati da parte dell’assicurato, che escluderebbe la valenza certificativa degli estratti stessi [46]. In tale ottica, [continua ..]
Il primo inequivocabile punto di rottura rispetto ad una posizione giurisprudenziale che andava via via consolidandosi è rappresentato dalla sentenza della Cassazione, sez. lav., 19 settembre 2013, n. 21454. In estrema sintesi, con tale pronuncia, la Suprema Corte ha affermato che la circostanza che il documento fornito dall’Ente previdenziale contenente informazioni erronee sia stato emesso non all’esito di un procedimento amministrativo all’uopo specificamente avviato su richiesta formale dell’interessato, e per questo non abbia valore certificativo, non costituisce causa di esonero dalla responsabilità gravante sull’Ente stesso. Ciò, in quanto la Pubblica Amministrazione deve garantire, sia nell’esercizio dei poteri autoritativi che nell’ambito dei rapporti contrattuali, l’affidamento e l’attendibilità delle sue dichiarazioni. Di conseguenza, sussiste una precisa responsabilità dell’Ente previdenziale nel diffondere e fornire informazioni errate o anche dichiaratamente approssimative nei confronti di un cittadino sulla propria situazione assicurativa o contributiva, quando da tali dichiarazioni possa derivare un danno, a prescindere dalla collocazione di tali informazioni nell’ambito di uno specifico procedimento amministrativo [49]. Il mancato rispetto dell’onere di doverosa cooperazione dell’assicurato non fa pertanto venire meno il nesso causale tra erroneità delle comunicazioni e danno subito, ma può rilevare nella fattispecie solo nei termini di cui all’art. 1227, comma 2, c.c., che, imponendo al danneggiato una condotta attiva o positiva funzionale a limitare le conseguenze dannose del comportamento del danneggiante, può incidere sulla quantificazione del danno. Con tale pronuncia, quindi, si assiste ad un allontanamento dal dato letterale di cui all’art. 54 della l. n. 88/1989, con la conseguenza che la responsabilità dell’Ente previdenziale non è più condizionata all’esistenza di un procedimento amministrativo finalizzato al rilascio di informazioni, ma può riscontrarsi anche nelle ipotesi, molto frequenti, di informazioni diffuse spontaneamente dall’Ente o nell’ambito di operazioni di invio generalizzato di estratti contributivi ai lavoratori privati. Più in generale, tale orientamento esalta la concezione della [continua ..]
Con l’eccezione della citata Cass., 17 aprile 2014, n. 8972, l’iter argomentativo offerto dalla Cass., sez. lav., 19 settembre 2013, n. 21454 è stato pedissequamente riproposto anche in successive sentenze della Suprema Corte. Tale approccio ermeneutico è stato successivamente adottato dalla Suprema Corte nella sentenza 3 ottobre 2017, n. 23050, che merita un particolare approfondimento. Con tale sentenza, la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un lavoratore che aveva sottoscritto un atto transattivo in cui accettava il licenziamento intimatogli ed il conseguente trattamento di mobilità, sul presupposto di aver maturato i 35 anni di contribuzione per accedere alla pensione di anzianità. Terminato il periodo di mobilità, il lavoratore presentava domanda di pensione che, tuttavia, veniva rigettata dall’INPS per mancata maturazione del requisito di anzianità contributiva minima. Il lavoratore si vedeva quindi costretto a versare la contribuzione volontaria per il periodo residuo. Occorre precisare che la convinzione del lavoratore di avere i presupposti per il pensionamento era ingenerata da una precisa informazione, fornita dall’INPS, che era stato appositamente interpellato dal lavoratore sul punto prima della sottoscrizione dell’accordo sul licenziamento. Il lavoratore, quindi, si rivolgeva al giudice del lavoro per ottenere un prolungamento del periodo di mobilità al fine del perfezionamento dei requisiti di anzianità richiesta e la condanna dell’INPS al risarcimento del danno, per avere quest’ultimo indottolo in errore e, quindi, costretto a versare la contribuzione volontaria. I Giudici di merito rigettavano le domande avanzate dal lavoratore poiché, in ogni caso, a questi non sarebbe spettato un trattamento di mobilità più lungo e comunque andava esclusa qualsiasi responsabilità di INPS che, nel caso di specie, aveva dato notizie in maniera informale, senza cioè che la richiesta fosse avanzata mediante l’apposita modulistica. Al contrario, la Corte di Cassazione riconosce la responsabilità dell’INPS nella determinazione del danno al lavoratore, confermando, in primo luogo, come l’Istituto debba rispondere del danno derivato da un proprio errore di comunicazione, a titolo di responsabilità contrattuale, salvo che provi che la causa dell’errore sia esterna alla [continua ..]