In questo saggio l’a. esamina le Convenzioni OIL n. 100 e n. 111 in materia di discriminazioni nel mondo del lavoro, unitamente alle politiche poste in essere dall’OIL per realizzare gli obiettivi dell’eguaglianza e della giustizia sociale. Dopo aver analizzato il concetto di discriminazione derivante dalle Convenzioni, l’a. focalizza l’attenzione sulle differenze tra le politiche e l’ambito di applicazione e nelle politiche del diritto antidiscriminatorio internazionale ed europeo, evidenziando il valore aggiunto dell’approccio dell’OIL.
In this essay the a. examines the ILO’s Conventions n. 100 and n. 111 concerning discrimination in the world of work together with the policies that the ILO has implemented to realise the goals of equality and social justice. After analysing the concept of discrimination arising from the conventions the A. focuses on the differences in the scope of antidiscrimination law and in the policies of the ILO and the European Union in the fight for equality, highighting the added value of the ILO’s approach.
Keywords: non discrimination - definition of discrimination - equal pay - multiple discrimination
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1. Eguale retribuzione per lavoro di eguale valore - 2. Il valore aggiunto dell'azione dell'OIL in rispetto alle politiche dell'Unione europea – Parte I: le differenze di approccio alle origini del diritto antidiscriminatorio - 3. I diversi fattori protetti nel prisma del divieto di discriminazioni - 4. Il divieto di discriminazioni nella Dichiarazione del 1998 e nella Decent Work Agenda - 5. La discriminazione come "moving target" - 6. Le politiche di eguaglianza - 7. Il valore aggiunto dell'azione dell'OIL in rispetto alle politiche dell'Unione europea. Parte II - NOTE
Il principio di pari retribuzione per un lavoro di eguale valore per uomini e donne risale all’atto costitutivo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1919 ed è sancito nel settimo dei nove principi enucleati dall’art. 427 del trattato di Versailles. L’ottavo principio inoltre enuncia il diritto ad un eguale trattamento economico per tutti i lavoratori legalmente presenti negli Stati membri. Benché tali formule presentassero in nuce un potenziale espansivo importante – in grado di attribuire al principio di eguaglianza quella valenza tale da poter essere declinato in termini di regola paritaria avente carattere generale e allo stesso tempo di incidere sulle forme di discriminazione più insidiose – in origine la clausola di salario uguale per lavoro di uguale valore rispondeva prevalentemente ragioni di carattere economico e aveva un significato riduttivo. Chi si è occupato a fondo dei lavori preparatori del Trattato ritiene infatti che il “reale intento (…) fosse quello di circoscrivere la portata della clausola, assegnando al termine “valore” il significato di valore economico per l’impresa e correlando la parità di retribuzione a pari quantità di output economico” [1]. Come si è accennato sopra, però, la più ampia formula utilizzata dall’OIL si è rivelata lungimirante, consentendo di affrontare, o quanto meno comprendere, meglio le problematiche connesse ai differenziali retributivi derivanti dai, e strettamente connessi ai, fenomeni di segregazione occupazionale [2]. Nella Dichiarazione di Filadelfia del 1944 si sancisce che ogni essere umano “indipendentemente dalla razza di religione o sesso” ha il diritto di perseguire il proprio benessere materiale e spirituale condizioni di libertà e dignità, sicurezza economica ed eguaglianza di opportunità. Tra i dieci punti del programma d’azione delineato a Filadelfia non compare quindi un vero e proprio divieto di discriminazioni e tuttavia si ribadisce l’applicazione dei principi della Dichiarazione stessa ad ogni persona in ogni parte del mondo e si sancisce la garanzia di eguaglianza di opportunità nell’educazione e nella formazione. La particolare sensibilità dell’OIL alla questione delle discriminazioni trova in buona parte spiegazione [continua ..]
Se si considera che l’affermazione di un principio paritario avente carattere così ampio e generale è antecedente alla formulazione del principio di parità retributiva contenuto originariamente dell’art. 119 del Trattato CEE, e si opera un confronto tra i due sistemi normativi, si notano alcune differenze fondamentali. La prima attiene chiaramente all’ambito di applicazione, che è ben più ampio nelle convenzioni OIL, aperte a molti più fattori di discriminazione, mentre notoriamente la competenza della CEE era originariamente limitata alle discriminazioni di genere e di nazionalità e quest’ultima ai soli cittadini degli Stati membri. La seconda differenza fondamentale che emerge nello sviluppo del diritto antidiscriminatorio dell’OIL rispetto a quello europeo attiene all’ambito oggettivo di applicazione dei divieti, il primo riferibile, sin dalla C111 (e poco dopo dal patto del 1966) ad ogni aspetto del rapporto di lavoro, compresi l’accesso alla formazione professionale e al lavoro), e il secondo limitato, almeno fino alla direttiva sulla parità di genere nelle condizioni di lavoro del 1976, alla sola retribuzione. Altra importante differenza attiene alla presenza nella C111 di una definizione di discriminazione, che nel diritto eurounitario comparirà invece più tardi a partire dalla direttiva 97/80/CE del 15 dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso. La differenza più rilevante che caratterizza l’approccio internazionale rispetto a quello europeo però attiene alle tecniche regolative. Sulla questione si tornerà diffusamente in prosieguo, tuttavia vale la pena sottolineare fin da ora come mentre il diritto dell’Unione si affidi fondamentalmente, o comunque prevalentemente, alla norma imperativa consistente nel divieto di non discriminare, norma che sin dalla storica sentenza Defrenne II del 1978 [15] assume particolare cogenza in quanto le viene riconosciuta efficacia diretta orizzontale, le convenzioni e le politiche dell’OIL, pur scontando un deficit sul piano dell’enforcement, si caratterizzano per la messa in campo di diversi strumenti e politiche di eguaglianza, quali il dialogo sociale (che comparirà in ambito europeo solo nelle direttive di nuova generazione del 2000), le politiche attive egualitarie nel campo [continua ..]
Come si è avuto modo di osservare sopra, il primo intervento convenzionale dell’OIL riguarda la parità salariale tra uomini e donne. Si è anche già accennato a come in origine l’affermazione del principio di eguale salario per lavoro di eguale valore sia stata un “frutto prematuro” [18]: considerato fondamentalmente come disposizione di natura programmatica (ma v. supra, § 2), oggetto di scarse ratifiche nei primi anni della sua vigenza e interpretato in modo riduttivo, in correlazione al rendimento del lavoratore e non alla valutazione oggettiva delle mansioni. [19] L’allargamento delle politiche paritarie seguirà poco dopo, con la C111, che estende il divieto di discriminazioni ad altri importanti fattori. È in questo atto che compare anche la prima definizione di discriminazione. A norma dell’art. 1 è considerata discriminazione “ogni distinzione, esclusione o preferenza fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l’opinione politica, la discendenza nazionale o l’origine sociale, che ha per effetto di negare o di alterare l’uguaglianza di possibilità o di trattamento in materia d’impiego o di professione”. Peraltro, la C111 copre solo una parte dei fattori generalmente considerati discriminatori. Essa si riferisce a: “la razza, il colore, il sesso, la religione, l’opinione politica, la discendenza nazionale o l’origine sociale” e l’attribuzione di contenuto al suddetto elenco non è sempre agevole. Mentre non sembrano esservi difficoltà nel definire cosa si intenda per discriminazione razziale o basata sul colore della pelle, generalmente considerati congiuntamente quali espressione delle discriminazioni effettuate su base etnica [20], più complesso è stabilire che cosa si intenda per discendenza nazionale. Tale espressione è stata prescelta in quanto differisce sia dal termine nazionalità, sia dalla formula origine nazionale utilizzata nei lavori preparatori proprio al fine di escludere dall’ambito di applicazione della C111 le discriminazioni per nazionalità: secondo l’interpretazione storicamente prevalente il termine va quindi riferito alle distinzioni basate sulla nascita o sull’origine straniera esclusivamente ove operate tra cittadini di uno stesso Paese [21]. Tuttavia, a [continua ..]
Come è noto, le C100 e C111 rientrano tra le otto prese in considerazione dalla Dichiarazione del 1998 e a cui viene attribuita efficacia vincolante per tutti gli Stati membri dell’Organizzazione a prescindere dalla loro ratifica. È altrettanto noto che la Dichiarazione ha suscitato dibattiti molto accesi, in particolare per la distinzione che ne è conseguita tra convenzioni fondamentali, di governance e tecniche. Il tema è complesso e non è certo possibile affrontarlo in questa sede [26]. Chi scrive, pur nutrendo perplessità sugli effetti del superamento del principio sancito nel Trattato di Versailles della parità formale di tutte le convenzioni – effetti che in particolare riguardano un allentamento del sistema di monitoraggio sull’attuazione delle convenzioni da parte degli Stati membri – non può non vedere con favore l’inclusione del divieto di discriminazioni nei Cls. Ciò che pare più interessante, ad ogni modo, è indagare le ragioni per cui – a differenza di altri principi fondamentali quali il giusto salario e le norme in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro – il divieto di discriminazioni sia stato incluso. Sono la dimensione globale del fenomeno discriminatorio, il suo effetto escludente dal mondo del lavoro, le sue connessioni con la questione della povertà, del lavoro forzato e del lavoro minorile (connessioni su cui si tornerà in modo più approfondito nel paragrafo seguente) a fare entrare a pieno titolo il diritto a non essere discriminati nella categoria dei c.d. enabling rights, diritti cioè che consentono alle persone “to claim freely, and on the basis of equality of opportunity, their fair share of the wealth which they have helped to generate, and to achieve fully their human potential” [27]; in altre parole, diritti senza i quali sarebbe impossibile la realizzazione degli obiettivi di giustizia sociale e il rispetto anche di tutti gli altri standard normativi dell’OIL [28]. Pare fuori di dubbio che, per quanto concerne il divieto di discriminazioni, la sua inclusione tra i Cls abbia rappresentato un successo sotto diversi profili. Anzitutto per quanto riguarda il numero di ratifiche, notevolmente aumentato a seguito della Dichiarazione del 1998. Si stima che la C111 sia tra le più ratificate in assoluto, con l’adesione di [continua ..]
La C111 ha un ambito di applicazione molto ampio, in quanto comprende l’accesso al lavoro e all’occupazione e chiaramente anche il lavoro autonomo, il lavoro informale, quello non retribuito e quello svolto in ambito familiare [34]. La Convenzione inoltre, riferendosi ad ogni distinzione esclusione o preferenza che determina un trattamento meno favorevole, accoglie una nozione di discriminazione oggettiva, che prescinde quindi da ogni intento discriminatorio [35]. Secondo l’interpretazione prevalente, inoltre, la C111 copre sia la discriminazione diretta, sia quella indiretta [36], le cui nozioni appaiono sostanzialmente in linea con quelle elaborate a livello europeo [37], anche se poi nei rapporti OIL l’esatta riconduzione di specifici trattamenti meno favorevoli alle due fattispecie diretta o indiretta non appare sempre coerente, come non lo è del resto nella giurisprudenza della corte di giustizia Ue [38]. Le eccezioni e i trattamenti differenziali sono ammessi ampiamente e vi rientrano in particolare i requisiti necessari per lo svolgimento di un lavoro, le speciali misure di sicurezza per lo Stato e le misure speciali destinate alla protezione e assistenza di particolari gruppi di persone. Se da un punto di vista generale tali esclusioni paiono sostanzialmente in linea con l’elaborazione delle più alte corti, in particolare della Corte di giustizia Ue e della Suprema Corte statunitense [39], la loro concreta gestione appare più complicata, non solo per ciò che concerne l’individuazione dei requisiti determinanti per lo svolgimento della prestazione lavorativa [40] ma anche per quanto riguarda il delicato equilibrio tra parità e misure protettive a favore dei gruppi tutelati dal divieto di discriminazione. Non meno complesso è, come si è già accennato, l’accertamento della natura di norma protettiva di alcuni divieti posti all’occupazione femminile. Dai documenti di monitoraggio e soprattutto dal Global Report del 2003, intitolato Time for Equality at Work [41], emerge un’analisi dei fenomeni discriminatori particolarmente avanzata e meritevole di attenzione. L’espressione significativa che sintetizza meglio l’approccio dell’Organizzazione alle discriminazioni è quella che le definisce come un “moving target”, un bersaglio mobile. Tale [continua ..]
Una delle fondamentali questioni che si deve preliminarmente affrontare nell’individuare quali politiche e azioni possono essere poste in campo per realizzare gli obiettivi di parità è quella relativa alla loro declinazione con riferimento a ciascun tipo di fattore protetto. Ci si domanda insomma se esista una ricetta valida per tutti i fattori di discriminazione o se ciascuno debba essere affrontato con strumenti differenti. Le conclusioni dell’OIL su questo punto sono abbastanza chiare e tengono a mio avviso conto anche delle analisi sopra richiamate circa i fenomeni di discriminazione multipla. Si osserva che tutte le forme di discriminazione richiedono un set di politiche molto simili, comprendente in particolare, oltre ai divieti, anche misure di azioni positive, politiche di formazione e collocamento, adeguato coinvolgimento e ruolo attivo delle parti sociali e sviluppo di meccanismi di rappresentanza e voice dei gruppi discriminati. Se “gli attrezzi da lavoro” sono gli stessi per tutti i fattori, ciò che cambia e che assume importanza strategica è il mix degli interventi che deve essere posto in essere, che va calibrato e adeguato di volta in volta in relazione alle diverse fasi storiche, alla preminenza e alla gravità di alcuni fenomeni discriminatori in determinati territori e contesti e alle condizioni economiche sociali in cui si opera. Se si vuole, si riproduce esattamente qui quel principio di universalismo contestualizzato di cui si è detto sopra [46]. L’analisi induce di conseguenza l’OIL a non prendere posizione sulla querelle relativa alla predisposizione di una norma onnicomprensiva e alla costituzione di una sola istituzione avente competenze generali nel campo della lotta a tutte le discriminazioni oppure se si debba dar vita ad organismi separati, uno per ciascun fattore di discriminazione e ad osservare invece come la valutazione debba essere effettuata caso per caso, tenendo conto delle circostanze e delle priorità nazionali. Sul piano delle politiche legislative, degna di particolare menzione è l’attenzione posta all’evoluzione che il diritto antidiscriminatorio ha subìto in alcuni paesi mediante l’introduzione, accanto al classico obbligo negativo di non trattare diversamente le persone sulla base dei fattori protetti, di meccanismi di obblighi positivi. Il discorso non riguarda [continua ..]
Tornando al raffronto tra il diritto antidiscriminatorio dell’OIL e quello dell’Unione europea – raffronto che non si propone qui in una logica “competitiva” per individuare quale sia il sistema normativo migliore, ma per individuare le soluzioni migliore per la realizzazione dell’obiettivo dell’avanzamento verso l’eguaglianza e la giustizia sociale – si è già rilevato come il diritto antidiscriminatorio dell’OIL e in particolare la C111 prenda oggi in considerazione meno fattori rispetto a quello dell’Unione europea, perché età, disabilità e orientamento sessuale non rientrano nei Cls e in taluni casi sono protetti solo mediante raccomandazioni. Tuttavia, l’OIL è stata in grado di individuare e monitorare l’avanzata di nuovi fattori come l’Hiv/Aids, le caratteristiche genetiche e gli stili di vita e di comprendere sin dalla C111 anche fattori che all’interno del diritto Ue non trovano adeguata protezione o la trovano solo indirettamente. Mi riferisco in particolare alle discriminazioni per opinioni politiche (e sindacali), che possono essere considerate protette dal diritto derivato Ue solo mediante un’interpretazione ampia del fattore “religione e convinzioni personali”, ma soprattutto alle discriminazioni per origine sociale. In entrambe i casi si tratta di fattori ricompresi nell’art. 21 della Cfue, ma difficilmente azionabili in giudizio in ragione dei limiti di cui all’art. 51 Cfue [49]. A distanza di oltre cinquant’anni dallo sviluppo dei due apparati normativi predisposti per la lotta alle discriminazioni permangono significative differenze anche per quanto riguarda il loro campo di applicazione. Il diritto antidiscriminatorio derivato Ue si applica al lavoro subordinato e solo a determinate condizioni al lavoro autonomo: anche le direttive di nuova generazione estendono infatti l’applicazione del divieto di discriminare all’accesso al lavoro autonomo, ma è ancora da verificare da parte della Corte di giustizia Ue se tale divieto operi solo nella fase di assunzione o anche nelle condizioni di lavoro, comprendenti la cessazione del rapporto e i profili retributivi. Il punto è particolarmente critico anche perché in alcuni recenti casi la Corte di giustizia ha discutibilmente ritenuto applicabile il divieto di discriminazioni solo ai [continua ..]