L’articolo tratta del fenomeno della evasione contributiva, analizzando alcuni dati indicativi della sua entità. In particolare, l’articolo prende in considerazione alcuni degli “strumenti” più efficaci messi a disposizione, in questi ultimi anni, degli ispettori (del lavoro e previdenziali) tramite il d.lgs. n. 124/2004, il d.lgs. n. 81/2008 e la legge n. 183/2010. Infine, l’articolo individua alcune ragioni della attuale scarsa efficacia delle ispezioni in materia di lavoro (intese in senso complessivo) e prova a fornire alcune soluzioni che possano consentire, se non la eliminazione, almeno la riduzione del fenomeno della evasione e della elusione dei contributi previdenziali dovuti all’Inps e dei premi assicurativi dovuti all’Inail.
The work deals with the phenomenon of the contributes evasion and it analyzes some indicatives data about its entity. In particular, it analyzes some of the most effective instruments at the disposal of the inspectors in these last years in accordance to legislative decree 2004, n. 124, legislative decree 2008, n. 81 and law 2010, n. 183. Finally, the work states some of the reasons of the actual lean effectiveness of labor law inspections and it tries to find some solutions which can reduce the phenomenon of the contributes and insurance premium evasion.
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1. La entità del fenomeno della evasione contributiva - 2. I risultati della attività di vigilanza - 3. La disciplina normativa - 4. La conciliazione monocratica - 5. La diffida a regolarizzare - 6. L'interpello - 7. Le ulteriori novità introdotte dall'art. 33 della legge n. 183/2010 - 8. La sospensione della attività produttiva - 9. Alcune ragioni della scarsa efficacia delle ispezioni (intese in senso complessivo) e alcune possibili azioni di miglioramento - NOTE
Alcuni dati sono necessari per avere una idea di massima sulla entità del fenomeno della evasione contributiva nel nostro Paese (comprendendo in tale concetto anche quello della elusione contributiva). Il giorno 29 marzo 2017, in una audizione alla Commissione bicamerale di vigilanza sulla anagrafe tributaria, Enrico Giovannini (già Ministro del lavoro e delle politiche sociali del Governo Letta e presidente della Commissione istituita presso il Ministero della economia con il compito di redigere la “relazione annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva”) ha riferito che, nel triennio 2012-2014, a causa della evasione fiscale e contributiva, sono stati sottratti alle casse dell’Erario 109,6 miliardi di euro (in media) ogni anno. In particolare, nell’anno 2014, la evasione fiscale e contributiva è stata pari a 111,6 miliardi di euro, di cui 2,6 miliardi di euro per contributi previdenziali a carico dei lavoratori dipendenti e 8,6 miliardi di euro per contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro. A fronte di una complessiva evasione di contributi previdenziali stimata, per l’anno 2014, in 11,2 miliardi di euro, sempre nell’anno 2014 gli ispettori del lavoro e gli ispettori previdenziali hanno recuperato circa 1,5 miliardi di euro e, quindi, una somma pari a circa il 13 per cento (anche se i dati non sono del tutto omogenei tra di loro, poiché nel secondo importo sono compresi anche i premi assicurativi dovuti all’Inail). In pratica, circa l’87 per cento delle somme evase per contributi previdenziali non è stato recuperato e, pertanto, è stato sottratto alle casse dell’Inps. Si tratta di circa 10 miliardi di euro ogni anno, vale a dire di un importo pari a quello di una manovra finanziaria di “media” entità. Quindi, siamo già in grado di trarre una prima (amara) conclusione: la evasione fiscale e la evasione contributiva sono elementi strutturali della economia italiana o, forse, sarebbe meglio dire che la evasione è un riprovevole comportamento congenito nel costume italiano [1]. Ecco perché “l’esigenza di trovare una soluzione al problema del sommerso, oggi più che mai, è avvertita come una questione di fondamentale importanza dato che una drastica riduzione del fenomeno darebbe un contributo importante per riportare a livello europeo la [continua ..]
Altri dati aiutano a comprendere i modesti risultati raggiunti. Secondo il “rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale – anno 2016” (rapporto redatto, all’inizio dell’anno 2017, dalla nuova agenzia denominata Ispettorato nazionale del lavoro), nel corso dell’anno 2016 il personale di vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’Arma dei carabinieri [3], dell’Inps e dell’Inail ha ispezionato 191.614 imprese, ha rinvenuto 120.738 imprese irregolari, ha individuato 186.027 lavoratori irregolari e ha scoperto 62.106 lavoratori “totalmente in nero” [4]. Inoltre, per lo stesso rapporto, “i contributi e premi evasi complessivamente recuperati in occasione degli accertamenti svolti nel corso dell’anno 2016 ammontano ad €. 1.101.105.790”. Pare di capire che l’importo di 1,1 miliardi di euro sia il dato dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi accertati nel corso dell’anno 2016, non il dato di quanto è stato in effetti incassato (giacché questo ultimo importo è computabile solo a distanza di tempo dagli accertamenti ed è, purtroppo, molto inferiore). In ogni caso, si tratta, ancora una volta, di un importo pari a circa il 10 per cento della complessiva evasione di contributi previdenziali. Come detto, “il report evidenzia un numero di aziende ispezionate pari a n. 191.614, che appare sostanzialmente in linea con il dato rilevato negli anni precedenti, pur registrando una lieve flessione rispetto al 2015”. Però, se si considera il fatto che gli imprenditori italiani sono circa quattro milioni (senza dimenticare i datori di lavoro non imprenditori), è chiaro che ogni anno gli organi di vigilanza in materia di lavoro sono in grado di compiere accertamenti di polizia amministrativa solo presso il cinque per cento degli stessi imprenditori. In altre parole, da un punto di vista statistico, un imprenditore corre il rischio di subire una ispezione (in materia di lavoro) solo ogni venti anni. D’altro canto, le forze in campo sono esigue. Sempre con riguardo all’anno 2016, si è trattato di 2.538 ispettori del lavoro, 280 ispettori tecnici, 342 militari della Arma dei carabinieri, circa 1.400 ispettori dell’Inps e circa 300 ispettori dell’Inail. Quindi, in totale, circa 4.500 [continua ..]
A parte qualche singola disposizione (in alcuni casi anche molto importante) contenuta soprattutto nel d.P.R. n. 520/1955, nella legge n. 628/1961, nella legge n. 689/1981 e nel d.l. n. 463/1983, convertito nella legge n. 638/1983, il corpus normativo di riferimento è oggi costituto dal d.lgs. n. 124/2004 [5] (così come esso è stato modificato dalla legge n. 183/2010), oltre che dal d.lgs. n. 149/2015. Una terza conclusione può essere formulata: anche se è perfettibile (come tutte le cose umane), il d.lgs. n. 124/2004 si è rivelato un buon provvedimento, pure senza essere, così come è stato definito in maniera forse eccessiva [6], “un reale baluardo di legalità per la tutela del lavoro e dei lavoratori” (e ciò alla luce degli sconfortanti dati numerici forniti nei paragrafi precedenti). In altre parole, allo stato, gli “strumenti” normativi a disposizione degli ispettori (va da sé, quelli disciplinati dal d.lgs. n. 124/2014, in via congiunta con quelli che si rinvengono nelle altre disposizioni in materia) appaiono sufficienti per mettere in grado gli stessi ispettori di esercitare, in maniera efficace, i loro poteri di polizia ammnistrativa e, se del caso, di polizia giudiziaria [7]. In particolare, sono stati utili mezzi di contrasto al lavoro irregolare (inteso in senso lato) due istituti del tutto innovativi introdotti dal d.lgs. n. 124/2004, quali la conciliazione monocratica (art. 11) e la diffida a regolarizzare (art. 13). Del pari, sotto il profilo del contributo alla certezza del quadro regolatorio e, quindi, della prevenzione degli illeciti e delle omissioni, ha dato proficui risultati lo strumento dell’interpello (art. 9), prima conosciuto solo in ambito tributario. Invece, poco efficaci si sono rivelati sia la diffida accertativa per crediti patrimoniali (art. 12), che ha una farraginosa procedura di emissione, oltre che di impugnazione della stessa diffida [8], sia i nuovi istituti del contenzioso ammnistrativo (art. 16 e art. 17, peraltro più volte riformati negli anni successivi e, da ultimo, novellati dall’art. 11 del d.lgs. n. 149/2015).
L’introduzione di un istituto (quello della conciliazione monocratica) atto a collegare la funzione di vigilanza e la funzione di conciliazione “rappresenta probabilmente l’elemento di maggiore originalità introdotto tra i principi di delega, in quanto per definizione tra momento conciliativo e momento ispettivo non c’è mai stato alcun punto di contatto ed anzi l’esercizio della funzione ispettiva ha sempre costituito un ostacolo per una soluzione concordata delle controversie lavoristiche” [9]. Proprio perché ha raccordato le due principali attività istituzionali di quelli che, alla epoca, erano gli organi periferici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, vale a dire la attività di polizia amministrativa sull’operato dei datori di lavoro e la attività di risoluzione dei conflitti individuali di lavoro, la conciliazione monocratica ha avuto un apprezzabile successo, assicurando ai lavoratori una rapida soddisfazione delle pretese (retributive e contributive) e ai datori di lavoro una regolarizzazione dei rapporti senza l’aggravio delle sanzioni ammnistrative e, anzi, con la estinzione del procedimento ispettivo (con una consequenziale forte valenza deflattiva sul contenzioso sia di lavoro, sia di previdenza e, quindi, con un indubbio vantaggio anche per l’ordinamento) [10]. Detto successo è testimoniato dal fatto che la maggiore associazione sindacale dei lavoratori, la quale in origine aveva avversato il nuovo istituto conciliativo, ne è divenuta oggi una frequente utilizzatrice [11]. Alcuni miglioramenti potrebbero rendere ancora più incisiva la conciliazione monocratica: sarebbe utile fissare un termine per l’avvio del tentativo, specializzare alcuni funzionari dell’Ispettorato nazionale del lavoro e non delegare i tentativi a tutti gli ispettori, prevedere che il tentativo si possa concludere anche senza alcuna dazione in danaro al lavoratore e senza alcun versamento contributivo (ad esempio, nei casi di totale infondatezza della richiesta di intervento), così come sarebbe molto utile prevedere meno vincoli alla conciliazione c.d. contestuale, cioè alla conciliazione monocratica avviata “nel corso della attività di vigilanza” (sesto comma dell’art. 11), che sino a oggi ha avuto una applicazione marginale. Appare di indubbia efficacia la recente [continua ..]
L’istituto è stato disciplinato ex novo dal primo comma dell’art. 33 della legge n. 183/2010 [13]. La adesione alla diffida (in origine regolata dall’art. 13 del d.lgs. n. 124/2004) è molto vantaggiosa per il datore di lavoro, soprattutto nei casi di fondatezza degli atti ispettivi, giacché consente al trasgressore (e all’eventuale obbligato in solido) di essere “ammesso al pagamento di una somma pari all’importo della sanzione nella misura del minimo previsto dalla legge ovvero nella misura pari ad un quarto della sanzione stabilita in misura fissa”. In altre parole, il datore di lavoro inadempiente alle norme in materia di lavoro o di previdenza regolarizza la sua posizione con lo “sconto” massimo praticabile dall’ordinamento, sconto più conveniente di quello previsto dall’art. 16 della legge n. 689/1981 (che fa riferimento “alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa, o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo”) [14]. Piuttosto, vi è da dubitare della efficacia (sia in termini di prevenzione degli illeciti, sia in termini di deterrenza delle sanzioni ammnistrative) delle sempre più frequenti eccezioni alla generale regola della diffidabilità nei casi di “constatata inosservanza delle norme di legge o del contratto collettivo in materia di lavoro e legislazione sociale”. Con sempre maggiore insistenza il Legislatore introduce nuovi illeciti amministrativi (o regola vecchi illeciti amministrativi con nuove sanzioni) prevedendone la non diffidabilità e, quindi, escludendo che per essi il trasgressore e l’obbligato in solido possano beneficiare dei vantaggi dell’art. 13. Non è difficile immaginare che, in queste ipotesi, siano maggiori sia il ricorso al contenzioso (ammnistrativo e giudiziario), sia il ricorso al pagamento rateale delle sanzioni ammnistrative pecuniarie (art. 26 della legge n. 689/1981) con il consequenziale differimento degli incassi da parte dell’Erario. Alla stessa stregua, vi è da dubitare della efficacia delle reiterate modificazioni alle norme che fissano le varie sanzioni (civili, ammnistrative e penali) collegate ai diversi illeciti in materia di lavoro e di previdenza, modificazioni che certo non giovano alla certezza [continua ..]
L’art. 9 del d.lgs. n. 124/2004 ha introdotto un istituto del tutto nuovo, quello dell’interpello, con la finalità di “avvicinare sempre di più l’utenza alla struttura burocratica” [15]. In questi anni, le risposte fornite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali sono state numerose, di buon livello e precedute da un esaustivo approfondimento. Soprattutto si è trattato di risposte che hanno dato soluzione a casi concreti, non di affermazioni di carattere generale, quali si rinvengono non di rado nelle circolari interpretative dello stesso Ministero e degli Enti previdenziali. La istanza di interpello “consente al datore di lavoro, per il tramite degli intermediari abilitati, di conoscere il «dover essere» di determinati istituti o fattispecie, collocandosi fra i primi strumenti difensivi in materia di ispezioni, in una fase di difesa «anticipata» rispetto a qualsiasi intervento ispettivo” [16]. Semmai sarebbe opportuno prevedere una qualche regola con riguardo ai tempi di risposta (per i quali è oggi possibile solo il richiamo a norme che regolano istituti analoghi) e con riferimento agli effetti delle mancate risposte (giacché il Legislatore non ha indicato quali siano le conseguenze di una tale evenienza protratta a tempo indeterminato). Con un principio di rilevante civiltà giuridica, il capoverso dell’art. 9 del d.lgs. n. 124/2004, nel testo novellato dal centotredicesimo comma dell’art. 2 del d.l. n. 262/2006, convertito nella legge n. 286/2006, sancisce che “l’adeguamento alle indicazioni fornite nelle risposte ai quesiti di cui al comma 1 esclude l’applicazione delle relative sanzioni penali, amministrative e civili”. La aporia deriva dal fatto che il datore di lavoro, che si è adeguato alla risposta a interpello, è in regola dal punto di vista ammnistrativo e dal punto di vista penale, oltre che nei rapporti con gli Enti previdenziali, ma potrebbe essere inadempiente nei confronti dei suoi lavoratori dipendenti.
L’originario art. 13 del d.lgs. n. 124/2004 è stato sostituito dall’art. 33 della legge n. 183/2010, per il cui tramite “il procedimento ispettivo viene fatto oggetto di una profonda rivisitazione portando a compimento la relativa riforma nella prospettiva di un processo di semplificazione e trasparenza dell’azione ispettiva proseguendo idealmente l’attività intrapresa con la legge delega n. 30 del 2003, ove con l’art. 8 si prefiggeva lo scopo di razionalizzare le ispezioni amministrative in materia previdenziale e del lavoro (…). L’art. 33 del Collegato riscrive sostituendolo integralmente l’art. 13 del decreto legislativo n. 124 del 2004, in un’ottica di standardizzazione del processo ispettivo, ne elenca le fasi ponendo l’attenzione sul verbale di primo accesso, sul verbale conclusivo di accertamento e notificazione e sull’istituto della diffida obbligatoria” [17]. In altre parole, in una prospettiva di sempre maggiore efficacia della azione ispettiva derivante dalla sua procedimentalizzazione, il novellato primo comma dell’art. 13, “per la prima volta a livello legislativo, impone un determinato contenuto minimo al verbale ispettivo, nel tentativo di rendere più trasparente ed efficiente la fase del procedimento (eventualmente) sanzionatorio consistente nella acquisizione delle prove, ponendo così fine (almeno nelle intenzioni) a prassi in cui i verbali non di rado erano lacunosi, generici, oppure inutilmente sovrabbondanti” [18]. Peraltro, tale contenuto minimo deve essere rispettato non solo dagli ispettori dell’Ispettorato nazionale del lavoro, ma anche da “chiunque voglia contestare sanzioni amministrative in materia di lavoro” [19]. Per la verità, tale procedimentalizzazione appare più funzionale alle ispezioni mirate alla ricerca del lavoro sommerso (e, quindi, al contrasto della evasione) che alle ispezioni mirate al contrasto della elusione e la circostanza rappresenta un punto di criticità, poiché è nella elusione che si annidano i grandi numeri dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi non pagati. Inoltre, la redazione degli atti ispettivi dovrebbe essere resa più semplice in via generale [20], oltre che più semplice nelle ipotesi in cui, all’esito dell’accertamento, il datore di lavoro risulti in regola.
In modo paradossale, la … arma più potente nelle mani degli ispettori non è disciplinata dal d.lgs. n. 124/2004 e nemmeno dalle altre norme in materia di ispezioni sul lavoro, ma dall’art. 14 del d.lgs. n. 81/2008 (così come esso è stato modificato dall’art. 11 del d.lgs. n. 106/2009). Si tratta del “provvedimento di sospensione (…) dell’attività imprenditoriale”, già regolato dall’art. 5 della legge n. 123/2007 e oggi adottabile dagli “organi di vigilanza del Ministero del lavoro (…) quando riscontrano l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”. Proprio perché non ha come suo presupposto le sole trasgressioni alla disciplina sulla tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, la norma in esame “comporta uno sconfinamento rispetto all’oggetto tipico del decreto legislativo 4 aprile 2008, n. 81. (…) Pertanto, il provvedimento di sospensione persegue vari scopi di pubblico interesse, solo in apparenza coerenti, poiché esso mira ad impedire la prosecuzione di attività di impresa compiute con «lavoro sommerso e irregolare» ed a perseguire «la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori». (…). Non a caso, per ora, sono stati adottati molti più atti di sospensione per l’esistenza di forme di «lavoro sommerso e irregolare» che per pretese minacce alla sicurezza ed alla salute dei prestatori di opere. Però, allo stato, l’atto dell’art. 14 non è riuscito a dare sostanziali contributi alla salvaguardia della sicurezza, mentre ha avuto ampia e frequente applicazione nell’ipotesi di pretese fattispecie di «lavoro sommerso e irregolare»” [21]. Questa tesi dottrinale è confermata dal già citato “rapporto annuale dell’attività di vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale – anno 2016”, là ove riferisce “l’adozione di n. 7.020 provvedimenti (…) sostanzialmente in linea con quelli del 2015 (n. 7.118). Inoltre, la quasi totalità (n. 7.013) dei [continua ..]
Ferme le conclusioni a cui si è giunti e, in particolare, quella secondo cui è troppo esiguo il numero degli ispettori e quella per cui gli “strumenti” normativi a disposizione degli stessi ispettori appaiono sufficienti per metterli in grado di esercitare, in maniera efficace, i loro poteri, vi è da chiedersi quali siano le ragioni per le quali non si riesca a erodere la enorme massa delle somme sottratte, ogni anno, alla imposizione contributiva e assicurativa. Una prima ragione va individuata nella caotica, confusa, disordinata e farraginosa produzione normativa nazionale (sia in materia di rapporti di lavoro, sia in materia previdenziale e assicurativa). Infatti, “non può nascondersi che la legislazione di contrasto al lavoro nero o non – dichiarato pare scontare una pluridecennale limitazione conseguente alle plurime incertezze normative, che hanno riguardo sia ai livelli salariali (…), sia al contratto collettivo applicabile (…), sia alla disciplina stessa del rapporto di lavoro (…), sia alla possibilità di una deroga contrattata a livello aziendale delle stesse disposizioni di legge che regolano le condizioni di lavoro (…). Si tratta di discipline così complesse che i loro precetti appaiono poco compatibili con la pretesa di un rispetto volontario della disciplina di legge” [23]. Una seconda ragione può essere individuata nel fatto che, nonostante alcune eccezioni, i Ministri del lavoro che si sono succeduti negli anni non hanno posto la dovuta attenzione alla questione della vigilanza. Tra queste eccezioni, occorre ricordare il Ministro Maurizio Sacconi, il quale tramite la Direttiva in data 18 settembre 2008 ha “dettato criteri direttivi e linee guida che riprendevano lo spirito riformatore originario, dando il via ad una nuova fase di potenziamento delle azioni ispettive e di vigilanza, orientate alla tutela sostanziale dei lavoratori e meno concentrate sui profili meramente formali” [24]. In una prospettiva condivisibile, ma che (come detto) non è stata perseguita con convinzione dai Ministri successivi, la c.d. Direttiva Sacconi, “anche al fine di avviare un rinnovato e costruttivo rapporto con gli operatori economici e i loro consulenti, essenziale per portare a compimento il processo di modernizzazione del mercato del lavoro avviato con la «legge Biagi»” richiamava “la [continua ..]