Il contributo si propone di operare una ricognizione delle misure regionali di contrasto alla povertà non prima di aver posto la questione del fondamento costituzionale e della rilettura dell’art. 38 Cost. sulla scorta della necessità di offrire tutela anche nel caso di povertà nonostante il lavoro. Andando nel merito della rassegna delle misure regionali, si osserva che queste scontano i difetti di un “sistema” frammentario e disorganico caratterizzato per lungo tempo dalla mancanza di uno strumento nazionale. Tuttavia, l’Autrice procede alla catalogazione delle stesse, evidenziando i tratti comuni costituti dalla misura economica (quantum, durata ed eventuali misure ulteriori), dai criteri di selettività e dalla condizionalità.
The essay aims to offer a survey on the different measures against poverty implemented in the regional legislation, after having posed the question of its constitutional foundation and suggesting a reinterpretation of the art. 38 Const. on the basis of the need to offer protection even in the case of poverty despite work. While reviewing the regional measures, the Author stresses how they are affected by a fragmented and disorganized “system” due to a long-time lack of any national-level provision and instrument. Nonetheless it is possible to find some common traits, such as their economic consistency (amount, duration and possible further measures) as well the selectivity and conditionality criteria.
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1. Premessa. La povertà: fenomeno, iconografia e questione pubblica - 2. Alla ricerca del fondamento costituzionale del contrasto alle vecchie e nuove povertà e la 'crisi' dell'art. 38 Cost. - 3. Il contrasto alla povertà in Italia tra sperimentazioni, frammentarietà e costi - 4. La ricognizione degli strumenti regionali di contrasto alla povertà. Profili metodologici preliminari - 5. La prestazione economica di contrasto alla povertà - 6. Criteri di selettività - 7. Condizionalità - 8. Considerazioni conclusive - NOTE
Tra il materiale e l’immaginario, la povertà appartiene alla storia dell’umanità. Guerre, carestie e crisi economiche hanno esposto, da sempre e ciclicamente, popolazioni intere o, comunque, ampie fasce di esse al rischio povertà; così, il povero entra nell’immaginario collettivo e attraverso le rappresentazioni che hanno la potenza dell’iconografia, raffigurato ora come Santo dalle potenzialità salvifiche (dei poveri è il Regno dei Cieli!) ora come pezzente, ipostatizza la concezione che lo Stato ha rispetto alla questione [1]. Il fenomeno, come si evince anche dal suo correlato immaginifico, viene trattato fino a tutto il ’500 in modo spontaneistico e soprattutto privatistico, e lasciato all’iniziativa caritatevole dei singoli o degli Enti ecclesiastici [2]. Solo più tardi, la povertà come realtà sociale prende corpo nelle fonti quando, cioè, le autorità municipali di alcune tra le principali città europee cominciano a elaborare una serie di disposizioni normative miranti a una riorganizzazione radicale dei sistemi di assistenza; da questo momento, essa si insinua nelle maglie del discorso pubblico e prende, così, avvio la storia del governo della povertà inteso come insieme delle politiche e degli strumenti pubblici messi in atto per contrastare il fenomeno [3]. Appena la povertà diventa “questione” pubblica viene, però, stigmatizzata; lo Stato, infatti, dovendo impiegare risorse proprie, distingue tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli, attribuendo solo ai primi un sussidio e prevedendo, per i secondi, misure repressive [4]. Il povero, quello meritevole si intende, deve essere sostenuto onde ritornare nei ranghi del vivere civile e non divergere dagli stessi. Si forma allora un dispositivo complesso e mutevole capace di articolare due elementi apparentemente contraddittori eppure estremamente connessi – l’assistenza e la repressione, la pietà e la forca [5] – riuniti allo scopo di neutralizzare la potenziale carica eversiva della figura del povero, in genere mendicante e vagabondo [6]. La povertà assurge inevitabilmente a significante generale dell’accrescersi delle diseguaglianze e dell’approfondirsi del divario sociale e ciò sarà una costante degli ordinamenti statali fino ai giorni [continua ..]
Tra il materiale e l’immaginario, la povertà appartiene alla storia dell’umanità. Guerre, carestie e crisi economiche hanno esposto, da sempre e ciclicamente, popolazioni intere o, comunque, ampie fasce di esse al rischio povertà; così, il povero entra nell’immaginario collettivo e attraverso le rappresentazioni che hanno la potenza dell’iconografia, raffigurato ora come Santo dalle potenzialità salvifiche (dei poveri è il Regno dei Cieli!) ora come pezzente, ipostatizza la concezione che lo Stato ha rispetto alla questione [1]. Il fenomeno, come si evince anche dal suo correlato immaginifico, viene trattato fino a tutto il ’500 in modo spontaneistico e soprattutto privatistico, e lasciato all’iniziativa caritatevole dei singoli o degli Enti ecclesiastici [2]. Solo più tardi, la povertà come realtà sociale prende corpo nelle fonti quando, cioè, le autorità municipali di alcune tra le principali città europee cominciano a elaborare una serie di disposizioni normative miranti a una riorganizzazione radicale dei sistemi di assistenza; da questo momento, essa si insinua nelle maglie del discorso pubblico e prende, così, avvio la storia del governo della povertà inteso come insieme delle politiche e degli strumenti pubblici messi in atto per contrastare il fenomeno [3]. Appena la povertà diventa “questione” pubblica viene, però, stigmatizzata; lo Stato, infatti, dovendo impiegare risorse proprie, distingue tra poveri meritevoli e poveri non meritevoli, attribuendo solo ai primi un sussidio e prevedendo, per i secondi, misure repressive [4]. Il povero, quello meritevole si intende, deve essere sostenuto onde ritornare nei ranghi del vivere civile e non divergere dagli stessi. Si forma allora un dispositivo complesso e mutevole capace di articolare due elementi apparentemente contraddittori eppure estremamente connessi – l’assistenza e la repressione, la pietà e la forca [5] – riuniti allo scopo di neutralizzare la potenziale carica eversiva della figura del povero, in genere mendicante e vagabondo [6]. La povertà assurge inevitabilmente a significante generale dell’accrescersi delle diseguaglianze e dell’approfondirsi del divario sociale e ciò sarà una costante degli ordinamenti statali fino ai giorni [continua ..]
Se il primo intervento “strutturale” di contrasto alla povertà accostabile al Reddito minimo – intendendo per esso un trasferimento di ultima istanza, erogato ad intervalli regolari, finalizzato alla protezione dalla povertà e rispetto al quale è necessario fornire la prova dei mezzi (cioè dei requisiti reddituali e/o patrimoniali) – è recente (a regime dal 2017), non era mancata, invero, in termini assoluti una misura di questo genere [22]. Infatti, sin dalla fine degli anni ’90, seppure in via sempre transitoria e sperimentale, si sono introdotte misure in quest’ambito [23]. Si è così determinata, innanzitutto, una sovrabbondanza di prestazioni assistenziali per lo più particolaristiche e categoriali (v. quanto avviene per l’invalidità) che, se da un lato riconoscono più benefici agli stessi destinatari, dall’altro risultano inadeguate, lasciando completamente scoperti interi segmenti di soggetti in stato di bisogno. Si rivengono, perciò, a livello nazionale, regionale e locale misure di carattere spontaneistico, spesso emergenziale e comunque frammentario [24]. Questo dato, tuttavia, non deve far pensare che però la spesa sociale sia più contenuta. In Italia, infatti, rispetto agli altri Paesi comunitari, essa appare quantitativamente non inferiore, ma qualitativamente sbilanciata. Benché la quota di Pil ad essa dedicata sia in linea con la media europea (28,6% a fronte del 27,7% della media europea) se si analizza tuttavia l’allocazione della spesa sociale per funzioni, emerge che questa è per la maggior parte assorbita per prestazioni di tipo pensionistico (vecchiaia per il 50,7% e superstiti per 9,3%) e malattia (23,7%) [25]. Soltanto lo 0,7% viene impiegato per combattere l’esclusione sociale. Ne consegue che i principali interventi di sostegno al reddito si inseriscono più propriamente nell’ambito delle misure previdenziali che presuppongono uno status professionale e una dote contributiva; in misura residuale, vi sono tutte quelle misure ascrivibili a quelle più propriamente assicurative, sganciate, cioè, da una qualunque contribuzione. Tra queste, poi, vi sono misure più tradizionali connesse a situazioni particolari nelle quali lo stato di bisogno deriva da una situazione patologica [continua ..]
Volendo fornire il quadro normativo di riferimento delle politiche regionali di contrasto alla povertà e di inserimento sociale e lavorativo occorre, innanzitutto, esaminare le norme che le Regioni hanno emanato in materia. Tale ricognizione non è del tutto agevole per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, a causa della soppressione della Commissione di indagine sull’esclusione sociale [27], manca un Rapporto di sintesi e un attento monitoraggio che possa fornire dati ufficiali. Sul piano istituzionale l’unico rapporto disponibile è quello redatto dall’ISTAT che tradizionalmente nel mese di luglio offre i dati sulla povertà relativi all’anno precedente, ma non supplisce alla mancanza di un’analisi qualitativa dei dati medesimi [28]. In secondo luogo, entrando nel merito, la ricognizione risulta complessa dal momento che le politiche regionali risentono della disorganicità che caratterizza in particolar modo tutto l’insieme dei provvedimenti di contrasto alla povertà rappresentandone esse stesse – unitamente alle politiche locali e al welfare di comunità [29] – alcuni frammenti di carattere ‘spontaneistico’ e, generalmente, emergenziale. In terzo luogo, si consideri che le Regioni, in mancanza di un provvedimento nazionale sui livelli essenziali delle prestazioni, hanno normato la materia in modo assai diversificato: disposizioni sul tema, variamente denominate, si rinvengono nelle leggi di bilancio regionali con la previsione di fondi ad hoc; oppure inserite nei piani di programmazione sociale accanto ad una congerie di azioni per il supporto ai soggetti socialmente vulnerabili; in molti casi, sono leggi regionali che introducono specifiche forme di sostegno economico. Le Regioni intervengono quasi sempre in via sperimentale e transitoria (tranne nel caso della Provincia autonoma di Trento, laddove la misura è stabile e strutturale); è inoltre possibile trovare misure non rifinanziate nella legge di bilancio (come nel caso del Lazio); o, ancora, leggi sostituite da successive che si sono, quindi, sovrapposte alle precedenti pur senza una formale abrogazione. Una tipologia a se stante di misure di contrasto alla povertà – di cui non si tiene conto nella presente analisi – è, inoltre, quella contenuta nei programmi operativi regionali (POR) finanziati con fondi strutturali e di [continua ..]
Il fulcro di ogni legge regionale che persegua la finalità di contrasto alla povertà è una misura economica variamente denominata, in cifra fissa (es. euro 350,00 mensili in Campania ed euro 7000,00 annui nel Lazio) o il più delle volte modulabile sulla base del reddito del beneficiario (es. fino a 550,00 euro mensili in Friuli Venezia Giulia, fino a 550,00 euro in Valle d’Aosta, o fino 600,00 in Puglia). La durata è variabile: cinque mesi prorogabili per ulteriori tre mesi in Valle d’Aosta; sei mesi nel Comune di Rovigo; dodici mesi in Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia e Lazio; ventiquattro mesi in Basilicata. In tutte le norme prese in esame, la misura economica è inserita in un contratto o patto sociale che ha lo scopo di accompagnare il beneficiario in un percorso di inclusione socio-lavorativa (v., in particolare, Basilicata, Lazio, Puglia). Nel caso della recente legge della Valle d’Aosta, il beneficiario deve presentare la domanda di accesso al Centro per l’Impiego o allo sportello sociale competente rispetto al proprio luogo di residenza, e ciò per la stretta connessione della misura (una sorta di reddito di ultima istanza) allo status di disoccupato/inoccupato del soggetto.
La maggior parte delle norme regionali esaminate subordinano la corresponsione della misura economica alla verifica di due principali criteri di selettività: la valutazione della condizione economica, realizzata prevalentemente attraverso l’applicazione dell’ISEE, e il possesso della residenza nel territorio regionale più o meno protratta nel tempo. Quanto all’ISEE, la disciplina nazionale previgente prevedeva la possibilità «per gli enti erogatori di prevedere criteri differenziati in base alle condizioni economiche e alla composizione della famiglia» [44]. Ciò ha comportato in molte realtà territoriali (regioni e comuni), in sostituzione o ad integrazione dell’ISEE nazionale, l’attuazione di varianti della “prova dei mezzi”. Ad esempio, le province autonome di Trento e Bolzano hanno adottato propri misuratori della capacità dei mezzi denominati, rispettivamente, Indicatore della Condizione Economica Familiare (Icef) e Dichiarazione Unificata di Reddito e Patrimonio (Durp) che differiscono notevolmente dall’ISEE nazionale. In sostanza, questi due indici modificano la determinazione della componente reddituale, passando dall’applicazione del criterio di reddito disponibile, adottato dall’Isee nazionale, a quello di reddito spendibile (ovvero al netto di una serie di spese sostenute dal nucleo familiare). Altre regioni hanno introdotto forme speciali di ISEE per la valutazione economica finalizzata all’accesso e alla compartecipazione alla spesa per gli interventi destinati a persone non autosufficienti, oppure hanno affiancato all’ISEE forme di valutazione della capacità economica basate non sulle risorse disponibili, ma sulla capacità di spesa (ad esempio, la legge campana prevede che la valutazione della situazione economica sia integrata dalla verifica della capacità di spesa dei richiedenti). Le soglie reddituali di accesso sono molto basse (dai 3000,00 euro della Regione Puglia ai 6500,00 della Provincia di Bolzano o ai 550,00 euro mensili per le famiglie con almeno 8 componenti in Friuli Venezia Giulia). L’altro criterio di selettività è rappresentato dalla permanenza minima sul territorio regionale che viene richiesto sia ai cittadini italiani sia a quelli extracomunitari; il requisito è variamente modulato dalle Regioni (dai 6 mesi del Veneto, ai 12 mesi di [continua ..]
Oltre ai requisiti di accesso alle misure, tutte le leggi regionali condizionano il sostegno economico a misure di attivazione volte all’inclusione sociale del beneficiario [45]. La mancata sottoscrizione o la violazione del patto di inclusione sociale per l’inserimento socio-lavorativo è considerata causa di decadenza dal beneficio economico, al pari del mutamento della situazione reddituale o la perdita dello status di disoccupato [46]. A queste condizioni, in genere, se ne aggiungono altre quali il rifiuto di una proposta congrua di lavoro come nel caso del Lazio o della Valle d’Aosta (non si richiede la congruità nel Molise o nella Basilicata) o la violazione di obblighi “accessori” che si impongono al beneficiario; si pensi, a quest’ultimo proposito, al caso del Friuli Venezia Giulia nel quale si prevede che il beneficiario decada dalla misura, oltre che per il mancato rispetto del patto di inclusione, anche per la mancata frequenza dei corsi scolastici obbligatori da parte dei figli minori del suo nucleo familia
In mancanza di un provvedimento nazionale sui livelli essenziali delle prestazioni sociali che curasse la regìa anche rispetto alle politiche delle Regioni, queste ultime sono intervenute in modo scoordinato e, a volte, poco razionale. Inoltre, la breve sperimentazione, quasi mai accompagnata da un serio monitoraggio e da una completa raccolta di dati, ha inciso sulla sistematicità dei provvedimenti normativi legati il più delle volte alle tornate elettorali, quasi che l’introduzione o la continuazione delle misure di contrasto alla povertà sia dovuta al colore politico delle diverse maggioranze di governo regionale succedutesi nel tempo. In ogni caso, alcune criticità sono evidenti. Innanzitutto, la scarsità delle risorse a disposizione ha comportato che le Regioni abbiano scelto soglie reddituali mediamente molto basse per determinare la platea dei beneficiari. Orbene, se il reddito familiare richiesto fosse quello effettivo del nucleo familiare, a quest’ultimo non sarebbe sufficiente, per raggiungere un livello di vita dignitoso, l’integrazione concessa dalle Regioni, dal momento che i Redditi minimi regionali sono anch’essi di importo abbastanza contenuto (l’importo più alto è quello del Reddito di dignità Pugliese di 600 euro per un nucleo familiare di cinque componenti). Se quel reddito nascondesse, invece, un reddito da lavoro irregolare/nero, la misura non risolverebbe il problema della c.d. trappola della povertà e, cioè, i beneficiari non avrebbero alcun interesse a dichiarare il loro reddito effettivo onde non perdere la prestazione economica. Se, in ultimo, a quello dichiarato corrispondesse, invece, un reddito effettivo costituito da proventi di attività illecita, si avrebbe un doppio effetto negativo: la misura economica sarebbe sottratta a chi versa in una condizione di effettivo bisogno e corrisposta, invece, a chi non ne ha i requisiti ed esercita un’attività illecita. Nessuna delle ipotesi appena descritte può essere esclusa. Comunque, indipendentemente dalle criticità connesse alle diverse tipologie di queste misure e al loro importo, le esperienze regionali scontano quasi tutte (specie quelle meridionali) la debolezza delle strutture amministrativo-burocratica locali sulle quali, di fatto, si scarica tutta la gestione delle politiche di contrasto alla povertà. A ciò si [continua ..]