L’autore prova a districarsi nella “giungla contrattuale” del sistema di relazioni industriali. Il carattere tradizionalmente pluralistico del modello italiano sembra essere degenerato, da alcuni anni a questa parte, in un vero e proprio caos. Sigle sindacali e datoriali semi-sconosciute risultano, in base ai dati Cnel, firmatarie di decine (se non centinaia) di contratti collettivi, con il risultato di dare il via a una corsa al ribasso nei trattamenti economici e normativi del lavoro. Dopo aver provato a scattare qualche istantanea della giungla dei contratti collettivi pirata, l’autore si confronta con alcune tra le soluzioni che il diritto del lavoro può mettere in campo.
The author struggles to disentangle himself in the “bargaining jungle” of the system of industrial relations. In these years the typical pluralistic nature of the Italian model has degenerated into “chaos”. Actually, barely known trade unions and employers associations sign dozens of collective agreements, thus bringing about a race to the bottom of labour costs and conditions. After having discussed the issue, the author deals with some of the solutions that labour law can implement to tackle this phenomenon.
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1. Introduzione - 2. Un fenomeno sfuggente - 3. Segue: ma sempre più diffuso e radicato - 4. Sindacati o pirati? - 5. Sistemi contrattuali paralleli - 6. Una lex piratica? - NOTE
Da oltre vent’anni, i contratti collettivi pirata sono una delle spine nel fianco del diritto sindacale italiano. Su tale fenomeno hanno provato a far luce la dottrina [1] e, di recente, i media generalisti [2]; a scopo di censura o di stigmatizzazione, sono intervenuti, a più riprese, il legislatore [3], l’autorità amministrativa [4], la giurisprudenza [5] e gli stessi attori storici (se si vuole, più accreditati) del sistema di relazioni industriali [6]. Gli interlocutori del diritto sindacale [7], insomma, non solo sono perfettamente al corrente del problema, ma hanno, nel tempo, elaborato strategie via via più sofisticate per affrontarlo; eppure, le effettive dimensioni del fenomeno e le sue diramazioni, in concreto, nel sistema contrattuale (e nel «mondo sindacale») sono sempre più inquietanti e restano, per di più, avvolte da una coltre di nebbia [8]; non ultimo, perché in mancanza di elementi costitutivi certi per fornire una definizione di «contratti pirata», a essere controvertibile, a onor del vero, è il fatto stesso di etichettare come tale un accordo collettivo [9]. È opportuno, perciò, avvicinarsi al tema con un tentativo di «inquadramento» o di «posizione» (infra n. 2), da mettere poi alla prova in relazione ad alcuni contratti collettivi che potrebbero apparire (quantomeno) «sospetti» (infra n. 3), per interrogarsi, infine, su quali possano essere le strategie più efficaci per fare maggiore luce su questo fenomeno e per arginarne la diffusione nel sistema di relazioni industriali (infra nn. 4-5).
Se è consentito giocare con questa fortunata metafora del nostro diritto, verrebbe da dire che non è chiaro quali siano i covi da cui muovono i pirati del sistema di relazioni industriali, né chi e quanti esattamente siano tali pirati, quale composizione socio-economica e disposizione politica abbiano, o quali legami coltivino con il mondo dell’imprenditoria italiana, specie in certe categorie produttive o regioni del Paese. Su quali scopi perseguano, invece, non pare vi siano grandi dubbi: per un verso, abbattimento del costo del lavoro, mediante minimi tabellari inferiori rispetto a quelli dei contratti collettivi sottoscritti dalle oo.c.r. [10], assenza di 14ma mensilità (rispetto ai settori in cui è prevista, come il commercio) e di altre voci aggiuntive della retribuzione, tagli nell’indennità di malattia, assenza di dispositivi di welfare aziendale, riduzione di oneri formativi (rispetto ai settori in cui hanno un certo peso specifico, come l’edilizia, per ragioni legate alla tutela della salute e della sicurezza), etc.; per altro verso, avere accesso alle cospicue risorse economiche e normative derivanti, a vario titolo, dall’instaurazione di sistemi contrattuali paralleli [11]. In sostanza, i contratti collettivi pirata sono un formidabile strumento di concorrenza sleale, di dumping sociale e (in senso lato) di arricchimento indebito, che consente di accaparrarsi segmenti di mercato in danno di agenti del sistema contrattuale «confederale» [12] e, al fondo, della collettività, che ha solo da perdere da una tale deriva dei rapporti economici e sindacali. Si tratta, per così dire, di una forma di degenerazione dell’autonomia privata collettiva, comparsa, a quanto consta, nei territori romagnolo (settore turismo) [13] e trevigiano (aziende contoterziste) [14] negli anni Novanta, per poi diffondersi a macchia d’olio in altre aree del Paese, nei più diversi settori (es. commercio, vigilanza, packaging, mensa, metalmeccanico). Tale degenerazione si manifesta nella conclusione di contratti collettivi, che constano, in molti casi, di una parte economico-normativa e di una (talvolta inaspettatamente corposa) parte obbligatoria, mediante la quale i soggetti firmatari realizzano – almeno [continua ..]
La storia insegna che il fenomeno piratesco si diffonde e prolifera, per mare o per terra (dove assume per lo più il nome di brigantaggio, o simili), ogni qual volta l’autorità costituita di un certo ordinamento politico-giuridico non sia in grado di proteggere efficacemente i propri confini da incursioni ostili, perpetrate da gruppi estemporanei o, talvolta, più organizzati, capaci, in ogni caso, di mettere a repentaglio la sicurezza dei traffici commerciali [17]. Benché i pirati di cui oggi ci si occupa non siano dotati di sciabole o moschetti, ma, probabilmente, di penna, smartphone e tablet, la metafora parrebbe cogliere nel segno: la proliferazione di «pirati» nel sistema di relazioni industriali – o nell’ordinamento intersindacale, secondo una prospettiva tra le più influenti e suggestive della materia – è un sintomo della insufficiente organizzazione di questo sistema e della sua (in)capacità di respingere «incursioni» e «atti ostili»; non stupisce, insomma, che in un sistema sindacale caratterizzato da persistente anomia regolativa e dal disordine emergenziale degli interventi che pur, negli anni, si sono susseguiti [18], si possano aprire veri e propri «varchi» nella struttura contrattuale, allo scopo (tra le altre cose) di innescare una corsa al ribasso nei costi del lavoro [19]. La crisi economica degli ultimi dieci anni ha fatto il resto [20]: secondo uno studio pubblicato nell’autunno 2017, i Ccnl depositati nell’archivio del Cnel sono 868, mentre nel 2008 ne erano stati censiti “appena” 398; le ragioni di questa proliferazione sono eterogenee [21], ma è significativo che soltanto una quota, invero, modesta di accordi (circa 300) sia stipulata, congiuntamente o separatamente, da organizzazioni «certamente rappresentative» [22]. Si può sostenere che, con le dovute eccezioni e al netto degli accordi scaduti e ancora conservati in archivio, la restante (gran) parte sia costituita da contratti collettivi «pirata»? Benché l’impressione possa essere questa [23], è evidente che la risposta dipende da cosa s’intende esattamente con questa locuzione. Al riguardo, è anzitutto da escludere, per ovvie ragioni legate alla storia del movimento sindacale (non solo italiano) degli ultimi [continua ..]
In apertura della voce «Sindacato», redatta per il Digesto nel 1997 [32], M. NAPOLI osservava: «come spesso accade il diritto costruisce i rapporti sindacali dando per scontata la configurazione sostanziale del soggetto che, costruendo la trama di tali rapporti, esplica la funzione di tutela degli interessi dei lavoratori, che è la sua ragion d’essere». Il diritto positivo non fornisce una definizione di sindacato, dandola per scontata ogni qual volta tale soggetto della società civile sia richiamato, ai fini più diversi, nella tela normativa [33]; ciò è comprensibile, non solo, o non tanto, perché non è stata adottata una «legge sindacale», quanto poiché, dal diritto, la nozione di sindacato non può che essere acquisita e assimilata dal sentire sociale e dalla prassi delle relazioni industriali. Per di più, il principio di libertà sindacale potrebbe porsi di traverso a una disciplina di legge che prevedesse cosa è e cosa non è o non può essere un sindacato [34]; il comma 1 dell’art. 39 Cost. raccoglie e valorizza, al vertice delle fonti dell’ordinamento, l’esperienza del sindacato nato dall’antifascismo e, a un tempo, apre, in virtù del principio pluralistico, alle formazioni costituitesi dopo il 1947, riconoscendovi una protezione in quanto tali [35]. D’altra parte, avverte sempre M. Napoli, un soggetto è «sindacale» se, e nella misura in cui, onora la propria «ragion d’essere», e cioè se «esplica la funzione di tutela degli interessi dei lavoratori»; non è, quindi – secondo un altro chiaro autore – una certa forma (o struttura) organizzativa a essere qualificata come «sindacale» dal principio di libertà, bensì la funzione che essa è chiamata a svolgere nell’ordinamento [36]: è «l’organizzazione [che] assume la qualifica di sindacale in funzione dell’esercizio dell’attività e non viceversa» [37]. Il che non equivale a mettere da parte, nella riflessione sul tema, l’elemento strutturale dell’organizzazione, che insieme a quello finalistico contribuisce a definire, in concreto, l’esperienza [continua ..]
Ferma restando la grande utilità – non solo in termini conoscitivi – di uno studio – che, si ripete, non può in questa sede essere svolto in modo puntuale – sulla natura (sindacale o meno) dei «pirati» del sistema contrattuale, si ritiene che la riflessione debba proseguire, per interrogarsi su quali possano essere, in base al diritto positivo, le strategie di contrasto al fenomeno de quo; come si è osservato, infatti, «il problema non è [soltanto] di qualificazione ma – come per ogni altra attività – di rispetto delle norme inderogabili di legge» [52]. Occorre prendere atto che il fenomeno non è più riconducibile alle furberie di alcuni consulenti spregiudicati – ai quali negli anni Novanta si poté attribuire la paternità dei primi contratti collettivi alternativi al sistema confederale – o all’imperversare di cooperative «spurie» in un mercato (che altrimenti sarebbe) genuinamente concorrenziale. Da un’analisi, sommaria quanto si vuole, dei dati Cnel, emerge una realtà diversa – fatta di una serie di sistemi contrattuali paralleli – in grado di interessare la gran parte dei settori produttivi o merceologici; soprattutto, per le attività labour intensive soggette ad affidamento in appalto [53]. In questi sistemi paralleli, la riduzione del costo del lavoro è realizzata in modo articolato: la compressione dei minimi tabellari è soltanto uno degli strumenti a disposizione e, a quanto pare, la fantasia di certi pseudo-sindacalisti non ha limiti (v. retro n. 2). Inoltre, ulteriori benefici derivanti dall’instaurazione di sistemi contrattuali paralleli sembrano consistere, per un verso, nell’utilizzo dei rinvii legali ai contratti collettivi, allo scopo di dettare una disciplina vieppiù flessibile dei contratti di lavoro atipici; per altro verso, nella costituzione di enti bilaterali e altre istituzioni paritetiche, allo scopo di svolgere tutta una serie di attività remunerative, come la certificazione dei contratti di lavoro e di appalto, l’offerta di attività di formazione, etc. Se si tiene presente tutto ciò, per vero, è difficile anche solo immaginare una strategia di contrasto «globale» al fenomeno che non passi per l’adozione di una legge sindacale, che [continua ..]
Il contratto collettivo è riuscito ad adattarsi agli ambienti giuridici più disparati. In una vicenda che si dipana lungo più di un secolo di storia, dopo essersi fatto le ossa in un clima di aperta – e poi mal celata – avversione statale e aver retto l’urto della repressione della libertà sindacale nei regimi autoritari [72], il contratto collettivo è assurto a vettore di distribuzione della ricchezza prodotta, strumento di implementazione (talora di anticipazione) del trattamento di legge, fonte e a un tempo limite del potere datoriale, momento di pacificazione tra gruppi, argine avverso gli effetti delle crisi economiche. In una battuta: decisivo fattore di stabilizzazione sociale [73]. Può affermarsi, così, che la «creatura normativa più corteggiata e coccolata del Novecento» [74] rappresenti, nei paesi dotati di un radicato sistema di relazioni industriali [75], un indispensabile veicolo di contemperamento degli interessi di capitale e lavoro; è parte essenziale, in altri termini, della ricerca di una soluzione «a un problema vecchio come il capitalismo»: quello di «sfruttare la funzione allocativa e innovativa intrinseca all’autoregolazione del mercato, senza dovere per questo pagare disparità e costi sociali che sono inconciliabili con i requisiti d’integrazione di una società liberale e democratica» [76]. I contratti pirata sovvertono, oggi, il modello costruito attorno a questa formidabile figura della modernità giuridica: per quanto essa sia tra le più innovative e versatili, non è facile piegarla al punto da ricomprendervi anche i contratti pirata, che non mirano a garantire stabilità ma, proprio al contrario, a creare instabilità, scompaginando l’interesse professionale alla cui cura è posto, nel sistema costituzionale, il sindacato libero [77]; l’incursione piratesca è vieppiù inaccettabile nel caso in cui cerchi di intercettare le risorse economiche e normative che lo Stato mette a disposizione dei soggetti più accreditati del sistema di relazioni industriali. Se non una legge sindacale, saprà il legislatore quantomeno adottare una lex piratica? Non sarebbe immaginabile, come la dottrina inizia da qualche tempo a suggerire [78], un intervento «costituzionalmente [continua ..]