Il saggio esamina l’evoluzione della disciplina del riallineamento retributivo, e delle successive esperienze, volte a consentire alle imprese di applicare il contratto collettivo in modo graduale. Esamina altresì le ragioni per le quali il riallineamento retributivo non è praticabile, senza una disposizione che lo ammetta espressamente.
The paper analyzes the evolution of wage realignment discipline, and the following rules, aimed to let enterprises progressively apply collective agreements. Examenis also the reasons for which wage realignment is not possible, without a law tha expressly admits it.
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1. Applicazione del contratto collettivo e benefici contributivi - 2. L'ambito di applicazione della disciplina sul riallineamento - 3. Il contratto provinciale di riallineamento - 4. Le successive esperienze di sostegno al rientro nella legalità - 5. L'impossibile reviviscenza del riallineamento retributivo - 6. La disciplina di interpretazione autentica per il settore agricolo - NOTE
A dispetto dell’affermata libertà dell’imprenditore di applicare o meno ai propri dipendenti un contratto collettivo, il legislatore ha da tempo introdotto delle disposizioni, che in sostanza comportano – per i datori di lavoro che svolgono la loro attività in modo regolare – la necessaria applicazione del C.c.n.l. sottoscritto dalle organizzazioni maggioritarie [1]. In particolare, secondo l’art. 1 della legge 7 dicembre 1989, n. 389 [2], la base di calcolo dei contributi, che il datore di lavoro deve versare agli enti previdenziali, per il finanziamento delle prestazioni da questi erogate, non può essere inferiore “all’importo delle retribuzioni, stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ovvero da accordi collettivi o individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo” [3]. L’art. 2, comma 25 della legge 28 dicembre 1995, n. 549, ha inoltre chiarito che, in presenza di una pluralità di contratti collettivi astrattamene applicabili allo stesso settore produttivo, si deve fare riferimento, ai fini del calcolo della contribuzione previdenziale, a quello stipulato dalle organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative della categoria”. Gli artt. 6 e 7 della legge n. 389/1989 subordinavano poi il godimento di taluni benefici (quali la fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi) tra le altre cose, al pagamento, ai lavoratori per i quali il beneficio veniva richiesto, di retribuzioni non inferiore a quelle previste dall’art. 1 della stessa legge. L’art. 1, comma 1175 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ha inoltre introdotto una disposizione generale, in forza della quale i “benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati” non soltanto al possesso del documento unico di regolarità contributiva, ma anche al rispetto “degli accordi e contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. La non applicazione del contratto collettivo [continua ..]
Con l’art. 5 della legge 28 novembre 1996, n. 608, il legislatore aveva introdotto una disciplina organica dell’istituto, oggetto di successivi adattamenti e modifiche [9]. Questa prevedeva che, nelle zone svantaggiate del territorio nazionale, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali, le imprese, mediante contratti provinciali di riallineamento, potessero progressivamente adeguare le retribuzioni corrisposte agli importi determinati dal C.c.n.l., e nel contempo sanare anche le questioni pregresse. L’ambito di applicazione della disciplina era stato inizialmente individuato nei territori previsti dall’art. 1 del D.p.r. 218 del 1978. Si trattava in particolare delle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, delle province di Latina e Frosinone, dei “comuni della provincia di Rieti già compresi nell’ex circondario di Cittaducale”, dei “comuni compresi nella zona del comprensorio di bonifica del fiume Tronto”, dei “comuni della provincia di Roma compresi nella zona della bonifica di Latina”, e delle isole d’Elba, del Giglio e di Capraia. Tuttavia, l’art. 75, comma 1 lett. a) della legge 23 dicembre 1998, n. 448, aveva limitato, dalla data della sua entrata in vigore, la possibilità di utilizzare tale istituto alle sole aree di cui all’art. 87 (oggi art. 107), § 3 lett. a) del Trattato istitutivo della Comunità Europea, e subordinato la stessa all’autorizzazione degli organi comunitari. Si trattava in sostanza delle zone caratterizzate da un tenore di vita anormalmente basso, o da un elevato tasso di sottoccupazione, per le quali il diritto comunitario consente, senza incorrere nel divieto di attribuire aiuti di stato, l’introduzione di una disciplina differenziata rispetto alle parti restanti del territorio nazionale [10]. Non a caso, nel concedere la predetta autorizzazione, la Commissione Europea l’aveva limitata al solo ambito in cui erano già state ritenute ammissibili forme di riduzione mirata della contribuzione gravante sul datore di lavoro [11]. Dopo l’entrata in vigore della norma in questione, dunque, soltanto nelle regioni aventi le predette caratteristiche (e dunque Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna) si sarebbero potuti stipulare contratti di riallineamento. Nelle altre zone, invece, tale possibilità veniva [continua ..]
L’art. 5 della legge n. 608/1996 disponeva che con l’accordo provinciale venissero individuati “in forme e tempi prestabiliti, programmi di graduale riallineamento, dei trattamenti economici dei lavoratori ai livelli previsti nei corrispondenti contratti collettivi nazionali di lavoro”. Prevedeva poi un limite minimo per la quantificazione della retribuzione da assumere come base di calcolo per i contributi, durante il periodo di riallineamento [18]. Lasciava per il resto ampio spazio all’autonomia collettiva, che dunque avrebbe potuto modulare, entro i limiti appena indicati, i tempi per pervenire all’integrale applicazione della disciplina nazionale. Le organizzazioni sindacali avevano però adottato un modello comune di accordo, nel quale era prevista l’integrale immediata applicazione della parte normativa del C.c.n.l. Il raggiungimento dei minimi retributivi previsti a livello nazionale sarebbe invece avvenuto in modo graduale, in un arco temporale determinato e prestabilito (entro il limite massimo di 36 mesi). I lavoratori avrebbero percepito la retribuzione, nella misura dovuta secondo il C.c.n.l., soltanto al termine del periodo di riallineamento, mentre durante la vigenza dell’accordo il datore di lavoro poteva legittimamente continuare a corrispondere un importo inferiore. Parimenti, la retribuzione indicata dall’art. 1 della legge n. 389/1989 sarebbe stata presa in considerazione come base di calcolo dei contributi previdenziali soltanto al termine del periodo di riallineamento. Ciò però senza perdere il diritto a fruire di eventuali benefici di cui l’impresa potesse godere, e soprattutto dovendo calcolare la contribuzione dovuta agli enti previdenziali non sull’importo determinato dal C.c.n.l., bensì su quello indicato dall’accordo provinciale di riallineamento [19]. Questo assumeva dunque un ruolo centrale ed esclusivo nell’individuare il momento iniziale del programma di riallineamento, quello finale, nonché le tappe intermedie e le relative percentuali di adeguamento progressivo delle retribuzioni corrisposte a quelle previste nei corrispondenti contratti collettivi nazionali di categoria. I singoli datori di lavoro potevano aderire all’accordo provinciale di riallineamento, tramite la sottoscrizione di un verbale aziendale di recepimento [20], che doveva poi essere depositato presso la sede provinciale [continua ..]
La disciplina dei contratti di riallineamento non ha avuto particolare fortuna dal punto di vista applicativo. Oltre alla notevole complessità del procedimento, un notevole ostacolo è derivato dalla tardiva adozione, da parte dell’Inps, delle circolari applicative, che prevedessero gli adempimenti necessari per fruire in concreto delle predette agevolazioni. In mancanza di indicazioni operative del soggetto deputato a riconoscere i predetti benefici, infatti, gli operatori pratici erano particolarmente restii a compiere atti per i quali la mancanza di certezze determinava il rischio di successive interpretazioni difformi da parte dell’Inps, con conseguenze assai pregiudizievoli per l’impresa che avesse avviato un percorso, poi ritenuto in sede amministrativa non corretto. Inoltre, il sistema si fondava sulla necessaria sottoscrizione da parte delle organizzazioni provinciali dei datori di lavoro e dei lavoratori di un accordo, che costituiva il perno dell’intero sistema. In mancanza di questo, se anche una o più imprese avessero voluto rientrare gradualmente nell’ambito di applicazione del C.c.n.l., ciò non sarebbe stato possibile. Il termine per la stipula di nuovi contratti di riallineamento, e per l’adesione a quelli esistenti, inizialmente fissato al 31 dicembre 1999, era stato prorogato al 31 dicembre 2000 dalla legge n. 488/1999, a condizione che intervenisse la relativa autorizzazione da parte della Commissione Europea. La successiva disposizione di proroga, contenuta nell’art. 116 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, emanata sulla base di una nuova autorizzazione della Commissione Europea – pervenuta al Governo Italiano il 17 ottobre del 2000, della durata di un anno [23] – è stata interpretata nel senso di consentire esclusivamente l’adesione agli accordi di riallineamento già esistenti al 31 dicembre 2000, e non invece di sottoscriverne di nuovi. Il termine ultimo è dunque spirato il 17 ottobre 2001. Il legislatore – si può ritenere, in conseguenza del mutato clima politico – aveva però introdotto, con la legge 18 ottobre 2001, n. 383, un nuovo meccanismo di emersione del lavoro nero. Questo differiva dall’esperienza dei contratti di riallineamento perché era di applicazione generalizzata a tutto il territorio nazionale. Ciò evitava di dovere rispettare i limiti imposti dal [continua ..]
L’estinzione del meccanismo approntato dall’art. 5 della legge n. 608/1996, per la scadenza della proroga della possibilità di stipulare contratti di riallineamento, o di aderire ad essi, impedisce ormai di fare ricorso a tale strumento di emersione dal lavoro sommerso. Parimenti, la scadenza del termine di applicazione dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006 non consente al singolo datore di lavoro di regolarizzare la propria situazione, tramite accordi di livello aziendale. Tali effetti non potrebbero, a legislazione invariata, nemmeno essere ottenuti tramite l’introduzione, da parte dell’autonomia collettiva, di forme di graduale applicazione delle disposizioni di fonte contrattuale. Infatti, l’art. 1 della legge n. 389/1989 individua come base minima di calcolo per i contributi previdenziali quanto previsto dal C.c.n.l., per cui forme di eventuale deroga all’integrale applicazione di questo, seppure valide nei confronti dei lavoratori ai fini della determinazione della retribuzione, non inciderebbero sulla base di calcolo dei contributi, come determinata dal legislatore. In altri termini, gli istituti previdenziali potrebbero in ogni caso richiedere il pagamento dei contributi, non sulla base di quanto previsto in via transitoria dal C.c.n.l., ma adottando come base di calcolo l’ordinaria retribuzione in questo contenuta, assunta dal legislatore come minimale contributivo. Resterebbe inoltre esclusa in ogni caso la possibilità di individuare, per il periodo precedente all’entrata in vigore dell’ipotizzata disciplina transitoria, una base imponibile per il calcolo degli obblighi contributivi, diversa da quella prevista dall’art. 1 della legge. Anche l’introduzione a livello aziendale di una retribuzione inferiore a quella prevista dal C.c.n.l. dovrebbe fare i conti con ostacoli non superabili. Innanzitutto, infatti, una riduzione della retribuzione prevista dal C.c.n.l. non potrebbe essere fondata sull’art. 8 della legge 14 settembre 2001, n. 148 [28], dato che la retribuzione non è indicata tre le materie per le quali il contratto aziendale è legittimato ad introdurre deroghe alle disposizioni contenute nella legge e nel C.c.n.l. La parte terza dell’accordo interconfederale del 10 gennaio 2014, consente ai contratti aziendali di introdurre intese modificative “con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale [continua ..]
Nemmeno le più recenti disposizioni in materia di riallineamento retributivo consentono di pervenire a conclusioni differenti. Infatti, l’art. 10 della legge 29 ottobre 2016, n. 199, ha previsto che “gli accordi provinciali di riallineamento retributivo del settore agricolo possono demandare la definizione di tutto o parte del graduale riallineamento dei trattamenti economici dei lavoratori agli accordi aziendali di recepimento purché sottoscritti con le stesse parti che hanno stipulato l’accordo provinciale”. La disposizione non ha riaperto i termini per la sottoscrizione o per l’adesione ai contratti di riallineamento. È invece intervenuta per risolvere in via interpretativa una questione che si era posta in alcune zone del paese. In particolare, numerosi accordi di riallineamento nel settore agricolo, firmati nel periodo di vigenza della disposizione, avevano demandato al livello aziendale – ma sempre nell’ambito di quanto previsto a livello provinciale – la definizione del programma di riallineamento delle retribuzioni da erogare ai dipendenti. In altri termini, le organizzazioni provinciali del settore agricolo avevano introdotto una forma di flessibilità del programma di riallineamento, che non veniva individuato in modo rigido per tutte le imprese. Nell’ambito invece dei limiti previsti dall’accordo provinciale (e fermo restando il necessario raggiungimento, all’esito del programma di riallineamento, dei livelli di retribuzione concordati tra le parti) le imprese potevano diversamente modulare il programma, tenendo così conto delle loro specifiche esigenze. Si trattava in sostanza di un’anticipazione della valorizzazione del livello aziendale di disciplina, che ha caratterizzato la legge n. 296/2006. L’Inps aveva però ritenuto che l’art. 5 della legge n. 608/1996 non contenesse espressamente alcuna facoltà per l’accordo provinciale di riallineamento di delegare aspetti della disciplina al livello aziendale. Ciò aveva comportato in sede ispettiva non soltanto la richiesta di corrispondere la contribuzione dovuta, calcolata sulla retribuzione ordinariamente spettante ai lavoratori (e non sulla misura inferiore prevista dall’accordo aziendale di riallineamento), ma anche la decadenza dalle agevolazioni cui l’impresa aveva avuto accesso. La legge in questione, da qualificare come norma di [continua ..]