Nel Novembre 2017, a Göteborg in Svezia, i 28 capi di Stato e premier dei paesi aderenti all’Ue hanno discusso di “Europa sociale” e uno dei temi fondamentali è stato il salario minimo per legge in ogni paese dell’Unione. Lo scopo del salario minimo legale in ambito comunitario è quello di contrastare la competitività dei singoli paesi perseguita attraverso il dumping sociale. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non avere questo strumento e il legislatore ha tentato più volte di supplire al tema della inattuazione dell’art. 39, commi 2, 3 e 4 della Costituzione e, quindi, del mancato collegamento con l’art. 36 Cost. Infatti, una serie di interventi legislativi, con contenuti diversi, si sono succeduti nel tempo, orientati a rafforzare indirettamente l’efficacia ultra partes dei contratti collettivi di categoria, anche se è stata la giurisprudenza, a provvedere attraverso l’interpretazione dell’art. 36 Cost. a risolvere la questione delle garanzie ai lavoratori del minimo salariale. Il “Jobs Act” aveva previsto l’introduzione del salario minimo legale, ma alla fine l’istituto è stato stralciato dal testo approvato. Un salario minimo legale da estendersi, quale “compenso minimo legale” a carattere universale a tutte quelle figure lavorative, come i rider, in atto non ricomprese nella nozione tradizionale di subordinazione, che, a sua volta, necessita di una rilettura in senso inclusivo, in una logica di dialogo con l’autonomia collettiva e, in prospettiva, con una legge che conferisca efficacia generale ai contratti collettivi.
In November 2017, in Gothenburg, Sweden, the 28 heads of state and premier of EU member states discussed “social Europe” and one of the key issues was the minimum wage by law in every EU country. The purpose of the legal minimum wage in the Community is to counteract the competitiveness of individual countries pursued through social dumping. Italy is one of the few European countries not to have this instrument and the legislator has tried several times to make up for the issue of the implementation of the art. 39, paragraphs 2, 3 and 4 of the Constitution and, therefore, of the lack of connection with the art. 36 of the Constitution. In fact, a series of legislative interventions, with different contents, have occurred over time, aimed at indirectly strengthening the ultra partes effectiveness of the category collective agreements, even if it was the jurisprudence, to provide through the interpretation of the ‘art. 36 of the Constitution to resolve the issue of guarantees to workers of the minimum wage. The “Jobs Act” had provided for the introduction of the legal minimum wage, but in the end the institution was removed from the approved text. A legal minimum wage to be extended, as a “minimum legal compensation” of a universal nature to all those working figures, such as the riders, who are not included in the traditional notion of subordination, which, in turn, requires an inclusive reading, in a logic of dialogue with collective autonomy and, in perspective, with a law that confers general effectiveness to collective agreements.
Keywords: Social Europe-social pillar - minimum wage - union law -collective autonomy - minimum wages.
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Introduzione - 1. I minimi retributivi in Italia tra legge e autonomia collettiva - 1.1. Gli interventi di legge sui trattamenti minimi economici - 1.2. La giurisprudenza sull’art. 36 Cost. come "via italiana" ai minimi retributivi? - 1.3. I minimi retributivi ex legge n. 741/1959 e la giurisprudenza costituzionale - 2. Un'ipotesi di salario minimo legale in Italia - 2.1. L'individuazione concreta dei minimi retributivi - 2.2. Il rapporto tra salario minimo legale e contrattazione collettiva - 3. L'ipotesi di un "compenso minimo legale" e di un sistema di tutele sociali di base per il lavoro - 3.1. Oltre la distinzione tradizionale tra subordinazione e autonomia - 3.2. I paletti della giurisprudenza di merito e le sue oscillazioni - 3.3. Un "compenso orario minimo" legale a carattere universale - 4. "Compenso minimo legale" e "legge sindacale" - NOTE
Nel novembre 2017, a Göteborg in Svezia, i 28 capi di Stato e premier dei paesi aderenti all’Ue hanno discusso di “Europa sociale” [1]. Discussione preceduta dal tema dell’adozione del cosiddetto “Pilastro europeo dei diritti sociali”, sviluppatosi, in particolare, dopo l’avvio di una consultazione pubblica nel marzo 2016, di una proposta definitiva di testo, sotto forma di Raccomandazione proprio in vista del Vertice di Goteborg [2]. In quella sede di confronto uno dei temi fondamentali è stato il salario minimo per legge in ogni paese dell’Unione [3], indicato specificamente dalla Raccomandazione del 26 aprile 2017 come garanzia di minimum wage (punto 6, Cap. “Condizioni di lavoro eque”), anche se esso è ampiamente diffuso in area UE, considerato che solo sei Stati su 28, tra cui l’Italia, non sono dotati di questo strumento. Infatti, su ventotto Stati che compongono l’Unione europea, ben ventidue hanno un sistema legale di fissazione dei minimi retributivi. Alla più antica tradizione francese risalente al 1950 e aggiornata 20 anni dopo (lois 70-7 del 2 gennaio 1970), si sono uniti altri Stati, introducendo il salario minimo per legge: l’Inghilterra (ormai in fase di Brexit) nel 1998, con il National Minimum Wage e più di recente la Germania con la legge approvata l’11 agosto 2014 (Gesetz zur Regelung eines allgemeinen Mindestlohns – Mindestlohngesetz) [4]. Restano, dunque, privi di un sistema 0di determinazione legale dei salari minimi, oltre all’Italia, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca, l’Austria e Cipro. Lo scopo del salario minimo legale in ambito comunitario è quello di contrastare la competitività dei singoli paesi, perseguita attraverso il dumping sociale che favorisce anche le delocalizzazioni. Una prospettiva di “federalizzazione dei fondamenti della cittadinanza sociale” [5], da costruire anche attraverso la realizzazione di strutture sovranazionali di Welfare per aumentare i livelli di protezione sociale [6], invero sottoposti a continue compressioni e riduzioni dalle politiche di contenimento della spesa pubblica legate all’austerity europea [7]. Ma sarebbe illusorio pensare ad un allineamento delle retribuzioni dei singoli paesi verso l’alto: si pensi che i minimi salariali per legge [continua ..]
Nel nostro Paese tale tematica è stata, invero, sovente confinata nell’ambito del dibattito di politica legislativa, configurando più una competenza economica che giuslavorista [11]. In realtà, essa richiama una materia su cui si esercita una “competenza tipica ed esclusiva del giurista, vale a dire quella delle fonti (la legge nelle diverse graduazioni o gerarchie, il contratto collettivo, per non parlare della fonte extra ordinem rappresentata dalla giurisprudenza) e dei loro rapporti in materia salariale. Sotto questo profilo, solo il giurista può fornire i criteri entro cui, poi, le diverse opzioni di politica del diritto possono svilupparsi” [12]. Infatti, la identificazione della retribuzione con il principio del favor prestatoris, fondato sulla condizione di inferiorità del lavoratore subordinato nei confronti del datore di lavoro, costituisce l’elemento finalistico della speciale disciplina protettiva e riequilibratrice svolta dal diritto del lavoro. La soluzione finale adottata dai costituenti, com’è noto, escluse ogni previsione di salario minimo per legge, affidando tale compito all’autonomia collettiva [13], anche nella considerazione che i contratti collettivi erga omnes previsti dall’art. 39 Cost., avrebbero dovuto provvedere a fissare in via generale i minimi di trattamento retributivo per categorie, attraverso una connessione con l’art. 36 Cost. Ma tale scelta dei Padri costituenti ha rilevato storicamente i suoi limiti, a causa dell’inattuazione dell’art. 39 nella parte relativa all’efficacia generale dei contratti collettivi, che d’altronde già si poteva presagire nello stesso dibattito in seno alla Costituente [14], con la conseguenza che è stata affidato all’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. il compito di assicurare ai lavoratori una soglia minima retributiva, anche se con caratteri di “supplenza transitoria extra-legislativa” [15], nel mentre parte della dottrina elaborava ipotesi di retribuzione minima generalizzata [16]. La giurisprudenza, attraverso l’art. 36 Cost., ha attribuito un’efficacia generale, a carattere indiretto, alle clausole dei regolamenti contrattuali sui minimi retributivi, assunte come parametri [17].
Il legislatore ha tentato più volte si supplire al tema della inattuazione dell’art. 39, commi 2, 3 e 4, Cost. e, quindi, del mancato collegamento con l’art. 36 Cost. Infatti, una serie di interventi legislativi, con contenuti diversi, si sono succeduti nel tempo, teleologicamente orientati a rafforzare indirettamente l’efficacia ultra partes dei contratti collettivi di categoria. Si tratta di soluzioni che hanno tenuto conto dell’assetto di relazioni industriali adottato dopo l’entrata in vigore della nostra Costituzione repubblicana dai governi e dalle parti sociali, in quanto la garanzia dei trattamenti salariali minimi è stata perseguita non direttamente dalla legge, ma appoggiandosi sui livelli retributivi stabiliti dai contratti collettivi nazionali [18]. Questa è la via seguita, anzitutto, dalla cosiddetta “Legge-Vigorelli”. Com’è noto, nel 1959, recependo le pressioni derivanti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori di una “legge-stralcio” in materia di efficacia generale della contrattazione collettiva nazionale (ed in attesa di definire la vexata-quaestio dell’attuazione dell’art. 39), il Governo presentò il progetto di legge-delega tradotto nella legge 14 luglio 1959, n.741 (denominata “legge-Vigorelli”, dal nome del Ministro del Lavoro che aveva elaborato il progetto). Com’è ampiamente illustrato dalla letteratura scientifica [19], attraverso la legge-delega il Parlamento italiano delegava il Governo a recepire in decreti, aventi forza di legge, i contenuti dei contratti collettivi di diritto comune stipulati sino a quel momento, dando ad essi efficacia generale, allo scopo di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo a tutti gli appartenenti ad una stessa categoria, giustificando così, sul piano giuridico-formale, l’intervento eteronomo della legge sull’autonomia collettiva [20]. Una formula legislativa non più ripetuta per l’eccezione di costituzionalità da parte della Consulta dopo la sua reiterazione [21]. In seguito, negli anni, vari interventi normativi si sono succeduti per determinare il rispetto dei minimi retributivi dei contratti collettivi nazionali come condizione per la fruizione di diversi benefici e agevolazioni pubbliche, quali la fiscalizzazione degli oneri fiscali e la [continua ..]
Interventi legislativi a parte, è stata la giurisprudenza, a fronte della mancata attuazione dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 39 Cost. sull’efficacia generale dei contratti collettivi nazionali di categoria, a provvedere attraverso l’interpretazione dell’art. 36 Cost. a risolvere la questione delle garanzie ai lavoratori del minimo salariale, qualificandolo come precettivo nel nostro ordinamento [25], anche se autorevoli settori dottrinali hanno qualificato come “falso problema” l’alternativa tra precettività e programmaticità della norma in questione [26], a causa dell’eterogenesi dei fini dell’articolo, il quale concepito quale norma programmatica si tramutò nell’interpretazione generale in norma precettiva, funzionale a risolvere il vuoto legislativo conseguente all’inattuazione dell’art. 39 [27]. Già a partire dal 1952 con la “storica” sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 461 del 21 febbraio 1952 [28], la giurisprudenza ha provveduto a sancire il diritto dei lavoratori, prescindendo dalla loro iscrizione o meno ai sindacati stipulanti i contratti collettivi di diritto privato, all’applicazione dei minimi retributivi degli stessi, con un’operazione giuridica così ampia da far configurare un modello generale di tutela che trascende dal valore singolo del giudicato [29], consentendo la teorizzazione di un “salario minimo costituzionale” [30]. Un “minimo costituzionale” elaborato dalla giurisprudenza che ha interpretato la “retribuzione equa” prevista dall’art. 36 Cost. secondo i minimi salariali dei contratti collettivi nazionali di categoria, per assicurare così, la coincidenza tra precetto costituzionale e salario [31], conferendo in questo modo alla contrattazione collettiva di categoria, fondata sull’autonomia privata, efficacia soggettiva erga omnes, con il richiamo all’art. 2099 c.c., comma 2, confermando, in definitiva, la scelta di dottrina e giurisprudenza in materia retributiva lungo due assi: il primo relativo al rapporto tra legge e autonomia collettiva; l’altro fondato sul raccordo tra i diversi livelli contrattuali, nel continuo divenire tra centralizzazione e decentramento del sistema di contrattazione collettiva [32], anche in considerazione dell’evoluzione del [continua ..]
È stata la giurisprudenza costituzionale sui decreti delegati ex l. 741/1959, ad intervenire sulle diverse fattispecie relative al rapporto tra legge e contrattazione collettiva intesa quale portato negoziale dell’autonomia collettiva ovvero fonte normativa di grado inferiore delegata (“sub primaria”) dalla legge. In questo ambito la Consulta è intervenuta sulla nozione di trattamento minimo inderogabile, quale standard sia economico che normativo per i contratti individuali di subordinazione, con le sentenze n.12/1969 e n. 41/1970 e più risalenti n. 45/1960, n. 129/1963, n. 26/1967, oltreché con la n. 41/1970, secondo cui: “il trattamento minimo si identifica con l’oggetto stesso della delegazione legislativa al governo e comporta l’estensione erga omnes della c.d. parte normativa del contratto collettivo, ampiamente intesa come l’insieme delle norme poste a tutela dei diritti individuali, non solo patrimoniali ma anche personali del lavoratore” [46]. In questa prospettiva un particolare riferimento si deve fare alla sentenza n. 129/1963 della Corte costituzionale, a cui fece seguito la n. 156/1971, che hanno consentito di fissare l’adeguamento salariale dei minimi retributivi individuati dai decreti ex legge n. 741/1959 anche nei confronti dei non associati ai sindacati, a causa della loro sopravvenuta insufficienza, utilizzando le clausole salariali dei contratti di diritto privato successivi, in ragione del potere precettivo del principio della retribuzione sufficiente di cui al comma 1 dell’art. 36 Cost., riconosciuto dal diritto vivente.
L’introduzione del salario minimo legale potrebbe essere uno strumento di garanzia contro le “condizioni strutturali di sottosalario” [47], che, come ha sollecitato l’ILO, abbia adeguati strumenti sanzionatori [48], i quali sottraggono molti lavoratori alla copertura della contrattazione collettiva, con i fenomeni di destrutturazione del sistema dei diritti e delle tutele sociali e di svalorizzazione del lavoro, anche in Italia nel settore privato non meno che in quello pubblico [49]. Da questo angolo visuale è possibile osservare che salario minimo legale e contrattazione collettiva, nei paesi ove esiste questo istituto, sia con contrattazione collettiva a bassa copertura che, invece, con alti livelli retributivi, sono interattivi e complementari e non oppositivi [50], riaffermando una ormai tradizionale configurazione definita dalla dottrina di “salario sociale” [51]. In sostanza, il livello di copertura della contrattazione collettiva modifica sostanzialmente la funzione del salario minimo legale: solo nei paesi con bassa copertura l’istituto funge da “rete di protezione” per quanti non protetti adeguatamente dal salario contrattuale. Il dibattito dottrinale sul tema è molto ricco e articolato, con una dialettica di posizioni tra chi ritiene che il salario minimo legale metterebbe in questione il ruolo di “autorità salariale” delle parti sociali attraverso la contrattazione collettiva e posizioni, invece, favorevoli, che assumono il principio secondo cui le dinamiche salariali abbiano rilevanza a carattere generale anche di tipo pubblico, che giustifica un intervento legislativo sulla fattispecie [52]. In questa prospettiva, l’inesistenza di riserve di competenza fra legge e contratto, in quanto destinatari di un medesimo sostegno costituzionale, esclude che i rapporti fra le fonti si possano definire sulla base di schematiche delimitazioni di sfere di intervento. Niente autorizza a sostenere che l’intervento legislativo possa operare solo in via sussidiaria alla contrattazione, secondo la configurazione tradizionale della normativa sui minimi, cioè limitatamente alle categorie dove i salari siano eccezionalmente bassi per l’assenza o per la particolare debolezza della contrattazione: “Soltanto ragioni di concreta politica legislativa potranno consigliare o meno il legislatore a provvedere senza attendere [continua ..]
Il valore del salario minimo dovrebbe essere articolato in funzione delle retribuzioni di fatto, per regione o per aggregati di Regioni: le Macroregioni [70], con una differenziazione equilibrata per territori, in ragione dei diversi indici del costo della vita [71], che non appare in contrasto con la norma costituzionale. Si tratterebbe di una opportuna specificazione del valore dei salari minimi collegati alle diverse velocità delle economie del territorio nazionale ed ai connessi indici del costo della vita: un valore realistico del salario minimo orario. Circa il quantum, avuto riguardo al panorama comparato europeo, il salario minimo legale dovrebbe essere individuato tra il 50-60% dei salari medi scaturenti dalla contrattazione collettiva, per non interferire con essa [72].
In questa prospettiva una legge sul “salario minimo legale”, con la previsione di soglie minime di intervento previdenziale e di welfare, da estendersi anche a quelle figure di lavoratori che non rientrano strictu sensu nella nozione di subordinazione ma che subiscono gravi fenomeni di sfruttamento come nella fattispecie dei rider, istituto previsto in ben 22 paesi su 28 (27 dopo la Brexit) dell’Unione europea, appare una soluzione adeguata, sul piano legale e su quello sociale, al problema della previsione di una tutela di base per il mondo del lavoro che cambia. D’altronde, finalmente si ridiscute di “Europa sociale” [73]. E d’altra parte, si deve osservare che anche in Paesi caratterizzati da sindacati “forti” e relazioni industriali stabili, esistono strumenti legislativi di salario minimo: è il caso della Germania, caratterizzato dal tradizionale modello partecipativo delle parti sociali [74]. E inoltre, anche paesi dotati di meccanismi di estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi hanno istituti di salario minimo legale, dimostrando che la fissazione per via legislativa dei minimi salariali non è, o non è sempre, alternativa all’attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi [75], come testimoniano alcune esperienze straniere, in cui entrambi gli strumenti coesistono: il salario minimo legale universale costituisce la base per la contrattazione collettiva erga omnes, mentre, nel nostro ordinamento, la stessa giurisprudenza ex art. 36 Cost. potrebbe continuare ad operare sul versante dell’applicazione del principio di proporzionalità, atteso che quello della sufficienza verrebbe applicato dalla norma di legge. In questa prospettiva, l’inesistenza di riserve di competenza fra legge e contratto, in quanto destinatari di un medesimo sostegno costituzionale, esclude che i rapporti fra le fonti si possano definire sulla base di schematiche delimitazioni di sfere di intervento. Niente autorizza a sostenere che l’intervento legislativo possa operare solo in via sussidiaria alla contrattazione, secondo la configurazione tradizionale della normativa sui minimi, cioè limitatamente alle categorie dove i salari siano eccezionalmente bassi per l’assenza o per la particolare debolezza della contrattazione: “Soltanto ragioni di [continua ..]
Nel nostro Paese si discute di salario minimo legale in una prospettiva più ampia, in relazione anche alla tutela di forme ibride di lavoro autonomo con la previsione di soglie minime di intervento previdenziale e di welfare, da estendersi anche a quelle figure di lavoratori che non rientrano nella nozione tradizionale ex 2094 c.c. di subordinazione, ma che subiscono gravi fenomeni di sfruttamento come i cosiddetti rider [79]. Esiste, infatti, il problema delle garanzie per tutti i lavoratori dipendenti, stabilendo pari condizioni normative e retributive ed il fenomeno del dumping sociale generato dai contratti “pirata”, con il 12% dei lavoratori dipendenti che riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali, ingrossando le fila dei working poors, i poveri malgrado il lavoro. Si tratta di un fenomeno che riguarda l’intera Unione europea, con il formarsi di una “nuova classe di lavoratori” che hanno un’occupazione, anche formalmente legale, ma che non riesce a raggiungere il minimo economico per vivere decorosamente, a causa dei bassi salari in alcuni settori, specie del terziario, ovvero perché impiegata in lavori precari o discontinui [80]. L’ordinamento del lavoro deve evolversi verso un sistema di protezione più leggero ma universale, tale da ricomprendere la subordinazione quanto il nuovo lavoro autonomo economicamente dipendente, come quello dei rider [81].
In questa prospettiva l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 ha previsto un’estensione della “disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Su tale previsione di legge l’ermeneutica appare divisa in ragione di una “alternativa tra norma di disciplina, norma di fattispecie, o norma apparente” [82]. Se l’interpretazione dell’art. 2 del d.lgs n. 81/2015 si assume essere quella di norma di disciplina, esso estenderebbe per le loro intrinseche caratteristiche di debolezza organizzativa [83] ovvero economica [84], la disciplina della subordinazione [85] in conseguenza di un’asserita “contiguità”, senza, però, modificarne lo status legale di lavoro autonomo pur a prestazione organizzata ma né coordinata e nemmeno eterodiretta dalla committenza [86]. Questa interpretazione del dato normativo si dialettizza, invero, con quella che ritiene essere norma di fattispecie l’art. 2 del d.lgs n. 81/2015, con l’allargamento del perimetro della subordinazione a causa di un intervento sulla fattispecie ex 2094 c.c. [87], formalizzando, di conseguenza, la nozione di “subordinazione attenuata” sotto il profilo della qualificazione [88], già ampiamente recepita a livello giurisprudenziale, con l’apprezzamento del dato dell’inserimento del prestatore nell’organizzazione rispetto al concreto esercizio del potere direttivo datoriale, sia nelle controversie formatesi per attività a bassa professionalità e seriali ovvero in quelle ad altro contenuto professionale [89]. Una terza posizione ermeneutica valuta, invece, l’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 quale norma apparente [90] o altrimenti definibile di mero indirizzo interpretativo [91], interpretando così la norma di legge in questione quale strumento di positivizzazione di una linea giurisprudenziale già in essere, che non avrebbe giammai definito con nettezza i confini tra eterodirezione ed eterorganizzazione, in conseguenza del richiamo al “vincolo di soggezione del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e [continua ..]
Proprio di recente, con sentenza n. 1853 depositata il 10 settembre 2018, il Tribunale di Milano [111], confermando un precedente orientamento del Tribunale di Torino con la sentenza 7 maggio 2018, n. 778, ha definito come non subordinata l’attività dei rider: “Nel rapporto di lavoro tra una multinazionale del food delivery e il rider, il fatto che il lavoratore possa stabilire la quantità e la collocazione temporale della prestazione, i giorni di lavoro e quelli di riposo, e il loro numero, rappresenta un fattore essenziale dell’autonomia organizzativa, incompatibile con il vincolo della subordinazione (nel caso di specie, il rider non aveva vincoli di sorta, in fase di prenotazione degli slot, nella determinazione dell’an, del quando e del quantum della prestazione)”. Il Tribunale di Torino, a sua volta, ha ribadito che “Sono innumerevoli le sentenze che si sono occupate della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, ma il criterio principale elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione è quello secondo cui «costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative» (tra le tante, Cass. 8 febbraio 2010, n. 2728) … Si tratta di un profilo che era stato già messo in rilievo dalla Corte di Cassazione tanti anni fa, quando si era pronunciata in merito a una vicenda che presentava una certa analogia con quella attuale perché riguardava la consegna di plichi effettuata da lavoratori qualificati come autonomi: la Corte aveva allora affermato che proprio la “non obbligatorietà” della prestazione lavorativa escludeva in radice la subordinazione perché “la configurabilità della “eterodirezione” contrasta con l’assunto secondo cui la parte che deve rendere la prestazione può, a suo libito, interrompere il tramite attraverso il quale si estrinseca il potere direttivo dell’imprenditore” (Cass. n. 7608/1991 e n. 811/1993). Nei [continua ..]
Si potrebbe prevedere un “compenso orario minimo” legale a carattere universale, nuovo sistema con cui apprestare una rete di protezione economica minimale per tutte quelle prestazioni, che ben possono risultare caratterizzate da una debolezza socio-economica sebbene non siano etero-organizzate, e che, sia perché estranee alla disciplina della subordinazione applicata a queste ultime sia per l’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto con i suoi riferimenti all’adeguatezza del corrispettivo, risultano sottratte a qualunque forma di tutela. L’istituto potrebbe, così, svolgere una funzione importante per i “lavoratori vulnerabili”, comprimendo l’area dei working poors, finalisticamente orientato a promuovere un processo di inclusione sociale [124], ribadendo i caratteri sostanzialistici dell’art. 2094 c.c., con una interpretazione evolutiva e dinamica del concetto di subordinazione [125], rivolta ad estendere la regolamentazione della subordinazione a campi contigui [126], tenendo conto delle profonde mutazioni che già adesso la gig-economy sta producendo nel campo del lavoro [127], un modello produttivo certamente destinato ad espandersi [128], a seguito della crisi del modello produttivo taylorista-fordista [129] e della tradizionale divisione sociale del lavoro [130], che ha sviluppato un veloce processo di molecolarizzazione dell’identità sociale dei soggetti del mondo del lavoro, segnata da precarizzazione e flessibilità estrema [131]. Si potrebbe superare, così, la paratia tra lavoro dipendente e lavoro autonomo nella gig economy, anche se già comincia sotto il profilo giuslavoristico a delinearsi il problema della tutela dei lavori nella online gig economy [132]. In questa prospettiva è opportuno evidenziare che la dottrina si è cimentata sul tema sin dalla scorsa “ondata” di innovazione tecnologia, quella informatica negli anni ‘80 del Novecento [133], proprio a fronte dell’inserimento e del coordinamento delle prestazioni di lavoro non aderenti ai canoni tradizionali del lavoro subordinato, nei settori della produzione e dei servizi ad alta innovazione tecnologica [134]. Pur volendo prescindere dal tema della qualificazione quali lavoratori autonomi dei rider, appare in tutta la sua evidenza [continua ..]
In definitiva la prospettiva auspicabile potrebbe essere quella di un intervento legislativo sul “compenso minimo legale” a carattere universale, relativo anche ai salari minimi, fattispecie quest’ultima del resto prevista dalla legge delega n. 183/2014, di attuazione della generale riforma del diritto del lavoro in Italia denominata Jobs Act, e poi stralciata, con il vincolo dell’equilibrio tra legge e autonomia collettiva [143] e del divenire di quest’ultima [144], sul piano sociale secondo la “teoria dei sistemi” [145], per creare un rapporto positivo tra organizzazione sindacale, autonomia collettiva e intervento legislativo analizzato allo stato de jure condendo, in relazione al giuslavorismo di stampo normativista, in grado di recuperare e tesaurizzare le fonti extrastatuali e a ricondurle a sistema, giacché il rapporto tra norma di legge e autonomia collettiva può seguire strade diverse ma che si intrecciano tra di loro [146]. Si tratta di procedere ad un recupero ed una valorizzazione dalla nozione giuridica intesa nei sensi del fecondo rapporto tra diritto e società, da un “diritto vivente” [147] scaturente dalle dinamiche sociali e dei suoi organismi collettivi, anche con riferimento al contesto storico-politico, promuovendo l’interazione tra legge e contratto collettivo [148]. E in contrasto con lo stesso quadro comparato europeo, è il tentativo di circoscrivere agli attori “storici” delle relazioni industriali in Italia, l’ambito della contrattazione collettiva, sia attraverso la previsione dell’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, quanto della circolare n. 3/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, attraverso la formula del rinvio ai contratti stipulati da “sindacati comparativamente più rappresentativi” [149], con le dinamiche dell’autonomia collettiva in particolare il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014. Con questa formula si è cercato di risolvere il nodo gordiano del rapporto tra verifica della rappresentatività, libertà sindacale ed efficacia contrattuale, attraverso il “confronto di rappresentatività, dei soggetti sindacali legittimati alla stipula del contratto collettivo cui la legge rinvia” [150]. Le diverse interpretazioni di tale nozione la valorizzano ora come [continua ..]