Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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L'assistenza sociale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (di Giulia Maria Napolitano. Ricercatore presso l’Istituto di studi sui sistemi regionali e federali CNR)


Il contributo esamina alcune tematiche connesse al ruolo del sindacato esercitato della Corte Costituzionale nella graduale delimitazione degli ambiti dell’assistenza sociale dopo la riforma del Titolo V Cost.

Social assistance law in the case law of the Constitutional Court

The contribution examines some issues related to the role of the Constitutional Court’s exercised review in the gradual delimitation of the areas of social assistance after the reform of Title V of the Constitution.

SOMMARIO:

1. Il diritto all'assistenza sociale - 2. La strada in salita dei livelli essenziali delle prestazioni sociali - 3. Brevi cenni sulla legislazione regionale in materia sociale dal 2001 ad oggi - 4. Il contributo della giurisprudenza costituzionale nella definizione dell’assistenza sociale - 4.1. Il complesso quadro delle competenze in materia di assistenza sociale - 4.2. Il criterio della separazione delle competenze - 4.3. Il criterio della prevalenza - 4.4. La leale collaborazione e la chiamata in sussidiarietà - 4.5. I livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali e lo 'scavalcamento' della leale collaborazione - 4.6. Nucleo essenziale di un diritto e l'assistenza sociale - 4.7. Il coordinamento della finanza pubblica - NOTE


1. Il diritto all'assistenza sociale

Il quadro dell’assistenza sociale in Italia appare oggi estremamente articolato. Stato, Regioni e Comuni garantiscono e finanziano un sistema di assistenza, che assicura un complesso di prestazioni economiche e di servizi alla persona, a cui si aggiungono le risorse dell’Unione europea. In questo complesso sistema si intrecciano, si sovrappongono, e talvolta confliggono, competenze, meccanismi di finanziamento e diritti dei singoli. La finalità di questo contributo è quella di aiutare ad orientarsi in questo intricato puzzle. Il diritto all’assistenza sociale è menzionato nel solo art. 38, comma 1, Cost. per il quale «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Tuttavia, nonostante questo esplicito riferimento nel Titolo III della Costituzione, l’assistenza sociale non è menzionata [1] nel Titolo V, dedicato all’ordinamento istituzionale (art. 117), a differenza della tutela della salute, a cui spesso è accomunata, che è invece esplicitamente attribuita alla competenza concorrente di Stato e Regioni. L’assistenza sociale rientra pertanto nel novero di quelle materie c.d. “innominate”, che una ormai consolidata giurisprudenza costituzionale [2] ha attribuito in via residuale [3] (art. 117, comma 4) alle Regioni. L’assistenza sociale è, insieme alla previdenza, elemento fondante del sistema di sicurezza sociale universalistico e solidaristico, finalizzato a garantire condizioni di vita adeguate a coloro che si trovavano in situazioni di maggiore debolezza economica e sociale [4]. Il complesso delle prestazioni e servizi sociali sono assicurati direttamente dallo Stato e dai Comuni. Alle Regioni compete prevalentemente la programmazione e l’organizzazione del servizio sul loro territorio. Lo Sato garantisce il diritto all’assistenza ai cittadini, attraverso i suoi organi ed istituti, in base all’art. 38, commi 1 e 4, Cost., in presenza di una situazione di inabilità combinata a quella del bisogno. Sulla base di questi presupposti, le prestazioni erogate, genericamente qualificate come assistenziali [5], sono assicurate dall’INPS e vanno dall’assegno di maternità a quello per il nucleo familiare [6], alle varie forme di indennità dovute per una qualche menomazione che [continua ..]


2. La strada in salita dei livelli essenziali delle prestazioni sociali

I lep, in un impianto istituzionale a forte autonomia regionale, come quello disegnato dalla riforma costituzionale del 2001, hanno la funzione di garantire un quantum di tutele e garanzie essenziali – o, a seconda dei punti di vista, minime –, ed omogene su tutto il territorio nazionale [10], che costituiscono un nucleo intoccabile di prestazioni definite dallo Stato, in condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale [11], «ferma comunque la possibilità delle singole Regioni, nell’ambito della loro competenza concorrente in materia, di migliorare i suddetti livelli di prestazioni» [12], ma non di incidervi in senso riduttivo [13]. Al contempo essi rappresentano «un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto» [14]. Pur essendo queste definizioni generalizzabili ai lep di tutte le materie, assumono una particolare valenza in ambito sociale, data la loro prolungata latitanza in quest’ambito, pur avendo avuto origine ben prima della riforma costituzionale del 2001. Questa competenza è stata, infatti costituzionalizzata a seguito della riforma del Titolo V, ma era già stata prevista dall’art. 129, d.lgs. n. 112/1998 che, nel decentrare le funzioni, riservava allo Stato solo «la determinazione degli standard dei servizi sociali da ritenersi essenziali in funzione di adeguati livelli delle condizioni di vita». Successivamente, la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, 1egge n. 328/2000, cercava di traslare l’applicazione dei lep dalla sanità all’ass­istenza sociale, e, vincolandone strettamente la determinazione alle risorse del fondo nazionale (art. 22) [15], delegava all’Esecutivo, tramite il piano sociale, il compito di definire caratteristiche e requisiti. Bisogna attendere tredici anni dalla riforma costituzionale, perché lo Stato definisca il primo livello essenziale in materia di assistenza sociale, l’indi­ca­tore della situazione economica equivalente (ISEE), che in realtà ha ben poco del livello essenziale, a differenza della sanità [16], dell’istruzione [17] e del lavoro [18], [continua ..]


3. Brevi cenni sulla legislazione regionale in materia sociale dal 2001 ad oggi

La riforma costituzionale, se priva lo Stato del potere di programmazione [56], riservandogli la sola definizione dei lep sociali, segna l’inizio di una fase nuova per quasi tutte Regioni che si dotano di una legislazione organica di riordino del sistema di assistenza regionale. Questa si caratterizza per una crescente autonomia e indipendenza rispetto allo Stato centrale, quanto più aumenta la distanza temporale che si interpone tra l’emanazione della legge e la riforma costituzionale. Soprattutto negli anni immediatamente successivi alla legge quadro nazionale, la legislazione regionale ne richiama e ricalca le linee fondamentali, quali l’indicazione delle finalità perseguite, la definizione dei diritti degli utenti, l’indicazione delle modalità di accesso ai servizi. Nel tempo le organizzazioni regionali si caratterizzano sempre di più, tanto che è possibile individuare diversi modelli, che si distinguono per la ripartizione delle competenze tra i diversi soggetti istituzionali, Regioni, Province, e Comuni, e per l’intensità del ricorso al principio di sussidiarietà. In alcuni casi le Regioni affidano alla legge l’indicazione degli obiettivi nelle politiche settoriali [57], in altri delegano tale compito all’esecutivo, riservando all’Assemblea legislativa solo l’indicazione dei principi generali e la definizione dell’orga­nizzazione del servizio regionale. A seconda della diversa declinazione del principio di sussidiarietà sia nella dimensione verticale sia orizzontale e della distribuzione delle funzioni più importanti (quali la programmazione o la gestione delle risorse), si possono configurare i modelli adottati come più dirigisti o più consociativi rispetto agli enti locali (come per esempio in Emilia Romagna) o più aperti al coinvolgimento del Terzo settore, posto sullo stesso piano degli enti locali per l’erogazione dei servizi (come per esempio in Lombardia). Oltre ad una legislazione di riordino, si sviluppa un’articolata legislazione che tocca tutti gli ambiti dell’assistenza sociale: la famiglia, i minori, la disabilità, gli anziani, le dipendenze, il contrasto della povertà, l’integrazione dei migranti, la popolazione carceraria e le politiche di genere [58]. Questo complesso di leggi e disposizioni, inserite spesso all’interno di leggi [continua ..]


4. Il contributo della giurisprudenza costituzionale nella definizione dell’assistenza sociale

Il mutato assetto delle competenze [60] determina un profondo cambiamento nel quadro di riferimento dell’assistenza sociale [61], che «preclude allo Stato di fissare i principi fondamentali della materia, e di indicare gli obiettivi della programmazione, come era invece previsto dalla legge n. 328 del 2000, approvata in una fase nella quale la materia in esame rientrava tra quelle di competenza concorrente tra Stato e Regioni», mentre «risulta incompatibile con la previsione di un piano statale nazionale e con l’indicazione da parte dello Stato dei principi e degli obiettivi della politica sociale, nonché delle «caratteristiche e dei requisiti delle prestazioni sociali comprese nei livelli essenziali» (art. 18, comma 3, lett. a), legge n. 328/2000) [62]. Data questa necessaria premessa sugli effetti prodotti dal nuovo riparto di competenze, appare opportuno soffermarsi sulla “nozione di servizi sociali” [63]. La Corte Costituzionale arriva a definirla partendo dalla legge n. 328/2000, che attribuisce alla Repubblica il compito di assicurare alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, di promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli artt. 2, 3 e 38 Cost. (art. 1, comma 1). La Corte specifica che «il comma 2 del­l’art. 128 dispone che con tale nozione (servizi sociali, ndA) si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno o di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giu­stizia» [64]. Già prima della riforma costituzionale, la Consulta aveva individuato gli elementi caratterizzanti le prestazioni di assistenza sociale nell’assenza di discrezionalità [65] nell’erogazione, per distinguerle dalla beneficienza pubblica, ora scomparsa [continua ..]


4.1. Il complesso quadro delle competenze in materia di assistenza sociale

Oltre a dare una definizione dell’assistenza sociale, la Corte è intervenuta ripetutamente in materia, in quanto le prestazioni sociali sono assicurate da una pluralità di soggetti, che agiscono all’interno di un sistema multilivello, ri­gidamente strutturato in materie e competenze, che ha mostrato, nel tempo, non poche criticità e frizioni, acuite dallo scoppio della crisi economica. Le difficoltà del sistema si sono mostrate in più occasioni: laddove su un ambito materiale concorrono competenza statale e regionale; quando sia mancato il livello essenziale [86], come parametro di riferimento per individuare le ulteriori prestazioni regionali; quando una prestazione sociale regionale diviene garanzia di un diritto sociale che, nel tempo, supera il confine regionale per assumere una dimensione a-territoriale e la connotazione di livello essenziale [87], come si è verificato per il reddito di inclusione e poi di cittadinanza; quando il meccanismo di finanziamento del sistema, non completamente definito, ha reso difficile, per il soggetto competente, assicurare il servizio; infine nel caso in cui la tutela di un diritto fondamentale è entrata in conflitto con le esigenze di controllo della spesa. Decisivo, in questi anni, è stato pertanto il ruolo della Corte Costituzionale che ha circoscritto [88] sia i contenuti che il perimetro della materia, sebbene con un andamento non sempre omogeneo, che spesso ha sacrificato, con diverse motivazioni, l’autonomia regionale. Inizialmente la Corte ha richiamato il principio della separazione delle competenze, successivamente quello della prevalenza, poi ha fatto ricorso alla leale collaborazione, per trovare nel coordinamento della finanza pubblica un formidabile strumento trasversale che ha profondamente inciso sulla materia. Nonostante questa aspra conflittualità, negli ultimi anni era sembrata avviarsi una fase nuova, indirizzata verso forme di collaborazione che, in un certo qual modo, rendevano giustizia del lavoro svolto negli anni dai legislatori regionali.


4.2. Il criterio della separazione delle competenze

Ripercorrendo le tappe segnate dalla giurisprudenza della Corte, il primo dato che emerge è il ricorso al principio della separazione, come criterio risolutivo, quando vi sono ambiti di materie, quali l’immigrazione o l’istruzione, di competenza esclusiva dello Stato, che presentano una concorrenza di competenze con le Regioni su alcuni aspetti. L’immigrazione [89], di competenza statale per quanto attiene la programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale [90], presenta ampi ambiti riferibili all’assistenza sociale, che includono interventi inerenti l’alloggio, la lingua, l’istruzione o l’integrazione sociale [91] disciplinati [92] da molte «Regioni alle quali sono affidate direttamente alcune competenze» [93]. Tuttavia, il massiccio afflusso di immigrati [94] se, da un lato, ha incrementato una legislazione regionale tesa a favorire l’integrazione, dall’altro, complice la crisi economica, ha generato anche una legislazione di “difesa” volta a limitare la fruizione di alcuni diritti sociali considerati “troppo onerosi” per le finanze regionali, ove estesi agli im­migrati. Alcune Regioni hanno cercato di restringere l’accesso al welfare facendo ricorso alla c.d. residenza qualificata [95] o al possesso del permesso di soggiorno UE per i soggiornati di lungo periodo [96]. Così, per esempio, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di disposizioni come quelle della pro­vincia autonoma di Bolzano [97] che subordinavano alla residenza sul territorio per un periodo non inferiore a cinque anni l’accesso alle prestazioni assisten­ziali di natura economica; quelle della provincia autonoma di Trento [98] che subordinavano alla residenza nel territorio per tre anni continuativi, l’acces­so al­l’as­segno di cura; quelle del Trentino-Alto Adige/Sudtirol [99] che subordinavano alla residenza per cinque anni nella Regione, la corresponsione dell’assegno regionale al nucleo familiare per i figli; le disposizioni del Friuli Venezia Giulia [100] che subordinavano l’accesso alle prestazioni assistenziali alla permanenza in Italia da non meno di cinque anni; quelle della Liguria [101] che introducevano il requisito temporale della residenza per dieci anni consecutivi nel territorio nazionale, per i [continua ..]


4.3. Il criterio della prevalenza

Nel caso in cui si è reso impossibile ricorrere alla separazione, il criterio utilizzato dai giudici della Consulta, quando su un medesimo ambito materiale insistono tanto la competenza statale quanto quella regionale, è quello della prevalenza. Per l’assistenza sociale questo è avvenuto, per esempio, nel caso degli asili nido o di particolari provvidenze. La Corte soprattutto in una prima fase di attuazione della riforma costituzionale sembra privilegiare questa soluzione ricercando la competenza prevalente: così, per esempio, in occasione del già ricordato bonus bebè [110], in cui ha considerato prevalente la componente previdenziale su quella socio-assistenziale. La Corte mostra così tutta la sua difficoltà a privare il legislatore statale della possibilità di intervenire nella materia e a riconoscere le nuove competenze regionali. Così, anche nella ben nota vicenda sugli asili nido [111], la Corte in primo luogo si preoccupa di escludere che la disciplina di questi servizi possa essere interamente riconducibile alle «materie dell’assistenza e dei servizi sociali», pur ammettendo che in passato «gli asili nido erano speciali servizi sociali di interesse pubblico, riconducibili alla materia “assistenza e beneficenza pubblica” di cui al precedente art. 117 Cost. (si vedano le sentenze n. 139 del 1985; n. 319 del 1983; n. 174 del 1981)» [112]; quindi considera prevalenti le «funzioni educative e formative», sia pure in relazione alla fase pre-scolare del bambino, e le «finalità di rispondere alle esigenze dei genitori lavoratori», per ricondurre la titolarità della disciplina nella materia istruzione e, per alcuni profili, nella tutela del lavoro. In realtà, la Corte, pur escludendo che la disciplina possa rientrare tra i livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali [113], che avrebbero legittimato l’inter­vento dello Stato, fa trasparire la vera motivazione nella “paura” che si possa arrivare «ad escludere radicalmente ogni possibilità di disciplina degli asili nido da parte del legislatore statale» [114]. La soluzione è trovata con il ricorso al criterio della prevalenza della funzione educativa su quella sociale di questi servizi. Nonostante questa interpretazione, gli asili nido continuano ad essere [continua ..]


4.4. La leale collaborazione e la chiamata in sussidiarietà

Sebbene «nell’esercizio della potestà legislativa le sovrapposizioni di ambito materiale avrebbero dovuto essere risolte secondo moduli di netta separazione, attraverso l’applicazione del principio di prevalenza» [117] può accadere che «la normativa si trovi all’incrocio di materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa statale e regionale, senza che sia individuabile un ambito materiale che possa considerarsi nettamente prevalente sugli altri» [118], e «la valutazione circa la prevalenza di una materia su tutte le altre può rivelarsi impossibile» [119]. Perciò, «in ipotesi di tal genere, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la concorrenza di competenze, in assenza di criteri contemplati in Costituzione […] giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione (sentenze nn. 201, 24 del 2007; nn. 234 e 50 del 2005), che deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie» [120]. Nell’ambito dell’assistenza sociale, il ricorso alla leale collaborazione è stata una costante nell’istituzione di fondi statali vincolati [121], quali, per esempio, il fondo nazionale per le politiche sociali, il fondo per i soggetti non autosufficienti, il fondo per la famiglia. Questi hanno natura unitaria ed indivisa e «possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza (ex multis, sentenze nn. 63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005)» [122]. La Corte non esita a ricorrere a tutte le gradazioni della collaborazione [123]: l’intesa in Conferenza unificata, sia nella fase di attuazione sia in quella di ripartizione delle risorse del fondo per le politiche della famiglia; il parere, nel caso del fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, data la diversità degli interessi implicati e alla peculiare rilevanza di quelli connessi agli ambiti materiali rimessi alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, rispetto alla competenza regionale; l’intesa in Conferenza [continua ..]


4.5. I livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali e lo 'scavalcamento' della leale collaborazione

Nonostante i ripetuti richiami della Corte Costituzionale [129] alla necessità di definire i lep, concernenti i diritti sociali, alla riconosciuta trasversalità della «competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie» [130], e la necessità, per le Regioni, di avere dei parametri cui riferirsi, permane, per molti anni, un “vuoto” fonte di una estesa conflittualità che la Corte cerca di ricomporre «attraverso moduli di leale collaborazione tra Stato e Regione» [131]. Le Regioni legiferano dove avrebbe dovuto intervenire lo Stato e viceversa: ne sono un esempio, da un lato, tutte le varie forme di reddito regionale, previste ben prima del reddito di inclusione o di quello di cittadinanza, e, dall’altro, la social card, emessa dallo Stato senza qualificarla come livello essenziale, ma agendo come se fosse tale. Questa è stata la misura assunta dal governo per garantire almeno le necessità alimentari indispensabili ad assicurare il nucleo essenziale di un diritto ad un’esistenza dignitosa, di fronte ad una emergenza determinata dalla grave crisi economica iniziata nel 2008. Tuttavia, pur di fronte ad una emergenza di tale portata, lo Stato non riusciva, forse anche per scarsità di risorse, a qualificarlo come livello essenziale. La Corte, posta difronte al dilemma fra rispetto delle competenze o la necessità di assicurare effettivamente la tutela di soggetti in condizioni di estremo bisogno, ha ritenuto prioritario garantire “un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana […], deve potere essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo» [132], legittimando l’intervento dello Stato e “scavalcando” il ricorso alla leale collaborazione [133]. La Corte legittima tanto la previsione della misura, quanto la diretta erogazione, pur in assenza della qualificazione di livello essenziale, richiamando gli artt. 2, 3 comma 2, 38 e 117, comma 2, lett. m), Cost. In particolare la misura è intesa come «un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano del diritto di tutti i soggetti» [134] che fa [continua ..]


4.6. Nucleo essenziale di un diritto e l'assistenza sociale

Oltre alla forte interferenza nelle competenze regionali rappresentata dai lep, dalla giurisprudenza della Corte sembra emergere un ulteriore elemento di compressione o, meglio, un limite posto al pieno esplicarsi della legislazione regionale in materia sociale. Esso riguarda le situazioni in cui, in assenza di un livello essenziale, la Corte rinviene la necessità di tutelare ciò che è «strettamente inerente al nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana» [141] sia questo rappresentato dalla «offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» [142] oppure dalle «prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in particolare, alimentare» [143] – sia dal «nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili», tra «le quali rientra il servizio di trasporto scolastico e di assistenza» [144]. L’intervento sulla competenza regionale non avviene attraverso il criterio della prevalenza, ma per garantire il nucleo fondamentale di un diritto, ad esempio l’istruzione, che finisce per “attrarre” a sé tutti i servizi a questo complementari, configurati quali «garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili» [145]. Il concetto è espresso in modo ancora più chiaro nelle già richiamate sentenze n. 10/2010 e n. 62/2013, ove viene specificato come nelle situazioni in cui manchi una previsione a garanzia del nucleo fondamentale di un diritto, mediante la definizione di un lep, spetti al legislatore nazionale farsene comunque carico, anche stabilendone le caratteristiche qualitative e quantitative. La Corte usa e­spressioni come “nucleo incomprimibile di un diritto”, “garanzie minime” ed al­tre formule similari senza ricorrere alla formula “lep”, che include, ma non necessariamente coincide, con il livello minimo incomprimibile di un diritto. Il riparto delle competenze è pertanto intaccato non solo dal livello essenziale, garantito con riserva di legge, bensì anche dalla necessità di garantire il nucleo irrinunciabile di un diritto. Questa ulteriore scom­posizione dell’assistenza sociale tra prestazioni dello [continua ..]


4.7. Il coordinamento della finanza pubblica

La garanzia dei diritti sociali ed il finanziamento di servizi e prestazioni dipendono dalle relazioni finanziarie tra Stato, Regioni e autonomie locali e sulle quali incide il necessario coordinamento della finanza pubblica. Si tratta di una competenza trasversale, sebbene concorrente [146], che «prevale su tutte le altre competenze regionali, anche esclusive» [147] – Questa ha rappresentato uno tra gli strumenti più invasivi con cui lo Stato ha condizionato le politiche sociali delle Regioni [148], rendendo spesso difficile garantire i servizi di assistenza, dato il frequente ricorso a tagli lineari [149]. È stato evidenziato come si verifichi una «trasposizione – attraverso i tagli ai finanziamenti – della responsabilità politica della riduzione delle prestazioni sociali dal livello centrale a quello dell’ente territoriale di base. In pratica, un taglio lineare operato a livello centrale si riflette sugli enti territoriali e si riverbera sul livello dei servizi» [150]. Tuttavia, la Corte ha escluso il carattere meramente lineare dei tagli, non considerati come una indebita interferenza in ambiti inerenti i fondamentali diritti civili e soprattutto sociali [151], in quanto l’inter­vento «si limita a prescrivere una riduzione di spesa per acquisti di beni e servizi, in ogni settore e per un ammontare complessivo, senza indicare dettagliatamente la misura dei risparmi da conseguire in ciascun singolo ambito» [152]. Secondo i giudici della Consulta, se le riduzioni «possono determinare ricadute sull’intensità con la quale le Regioni concorrono ad assicurare la garanzia di alcuni fondamentali diritti», «il contributo imposto alle Regioni ordinarie determina una contrazione complessiva del livello della spesa, ma non è e non potrebbe essere indirizzato ad incidere, in dettaglio, sui singoli ambiti di questa» [153]. Si osserva, infatti, che le «ampie riduzioni di spesa in alcuni, pur fondamentali ambiti (assistenza sociale […]) “non dimostrano” l’oggettiva impossibilità di offrire un adeguato livello di servizio rispetto ai bisogni della popolazione» [154]. In tal caso, ricade sulla Regione l’onere di dimostrare l’impossibilità di garantire i diritti o, in alternativa, di trovare comunque un modo per garantire i diritti [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019